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La mia cara suocera

Ogni colpo sul sedere era come se azionasse una specie di elevatore alla base del inguine. Dopo pochi secondi, Silvia, con la coda dell’occhio, vide ergersi tra i lembi della camicia il cazzo del marito in tutta la sua prorompente vitalità. Probabilmente era solo un’illusione ottica dovuta alla circostanza, il trovarsi lì, nuda, a frustare il culo del marito, di fronte alla suocera (l’illustrissimo giudice Vittoria Massado) in guepiere nera con le tettone che sobbalzavano libere, che faceva altrettanto. Ma il membro coniugale, che le era sempre parso assolutamente il linea con tutto l’insieme del suo uomo, cioè rientrante nella più banale normalità, le apparve di dimensioni stupendamente interessanti. Evidentemente le frustate avevano un potere maieutico eccezionale su quell’uomo. La vista di quell’ammiccante turgore illuminò il viso della madre-suocera. Col frustino vibrò un leggero colpo sul membro. “Cosa fai porco, ti ecciti anche… quando ti puniamo….. allora dovremo rincarare la dose”. E prese ad assestare colpi sul cazzo del figlio. Filippo urlò sommessamente, quasi temesse di far arrabbiare di più la madre. “No vi prego, lì no” . Ma essendo che non si spostò neppure di un millimetro per evitare i colpi, la sua era chiaramente una preghiera che auspicava a non essere esaudita.

Così fustigato quel cazzo, contrariarmente a quanto ci si sarebbe potuti aspettare, pareva ergersi e ingrossarsi ancor di più. Vampate di sangue e adrenalina pompavano dentro le sue vene. Silvia strabuzzava gli occhi e la bocca le si riempiva di saliva. Inutile negarlo era eccitatissima, aveva smesso di frustare e si godeva attonita lo spettacolo di quella specie di sabba domestico. Filippo dolorante e in preda a un delirante arrapamento. La suocera che con fredda determinazione, continuava ad assestare colpi, su quel povero cazzo ormai color porpora. Fu scossa dalla voce della suocera, che continuava a dirigere le operazione con sapiente e consumata regia. “Avanti, non vedi come soffre, sei o non sei sua moglie…. fai qualcosa per alleviare le sue pene”. Silvia non sapeva bene cosa fare. Prese ad accarezzare con qualche titubanza quel membro ormai paonazzo e solcato da vene contorte e gonfie come radici. “Avanti, un po’ più di dedizione” le disse donna Vittoria con voce mielosamente bavosa. La scostò leggermente. “Si fa così… ti debbo proprio insegnare tutto”. Si chinò col viso all’altezza del pube di Filippo. Dischiuse le labbra, estrasse la lingua in tutta la sua lunghezza, vi depositò sopra il cazzo rovente del figlio. Quasi lo avvolse con la lingua, come in un pietoso sudario, poi lo fece scivolare lentamente all’interno della bocca, stringendolo con le labbra bagnate. “No, questo è troppo” pensò Silvia. “L’incesto no. La madre, anzi l’illustrissimo giudice Vittoria Massado, che succhia il cazzo a suo figlio, anzi a mio marito. Questo è troppo, qui siamo diventati tutti pazzi. questo è un sogno”. Avrebbe voluto dire queste cose ad alta voce. Ma la bocca le si era talmente inondata di saliva, che come la aprì un filino di bava le scese dal labbro inferiore, proprio come ai lattanti. Capì che l’inferno l’aveva ormai ighiottita e che poteva lasciare ogni speranza, non ne sarebbe più uscita. “Avanti, fai tu ora”. Le disse con un sorriso luciferino la suocera. Con una mano sulle spalle, la fece piegare in avanti. Con l’altra le porse il cazzo del figlio-marito. Silvia aprì incredula le labbra e lei le spinse dentro quell’enorme membro. Vibrava come la canna di un organo e pulsava che sentiva il rimbombo nella gola, fin giù nel petto. Quel cazzo scuro, nodoso, quasi ferino creava uno stupefacente contrasto con il viso delicato e pallido di Silvia. Quanto il suo incarnato opalescente pareva quasi angelico, tanto quel pezzo di carne che vi si piantava dentro aveva un che di animalesco. Un contrasto stupendo e incredibilmente eccitante pensò donna Vittoria.

“Brava… vedi che sei proprio brava…. su ora un po’ più di trasporto”. E per incitarla le affibbiò una frustata sul sedere. Poi si spostò e ne rifilò una a Filippo. Così, come se stesse incitando due cavalli a correre, prese di nuovo a infliggere colpi, ora alla nuora, ora al figlio. Silvia, che si era sempre cimentata con una certa timidezza nel sesso orale, a sentire il morso della frusta sulla sua carne, a sentire gli incitamenti osceni della suocera, fu travolta da una foga sconosciuta. Prese a leccare, a succhiare e a divorare quel cazzo ansimando e sbavando. Lo estraeva completamente dalla bocca accarezzandolo con le labbra. Poi glielo rituffava dentro, emettendo gemiti di soddisfazione. Poi lo riestraeva e lo leccava con tutta la lingua, partendo dalla base, su su fino al glande lucido. Poi se lo riaffondava in bocca, spingendolo fin quasi in gola, nel tentativo di farcelo stare tutto. La saliva le colava agli angoli della bocca. Con gli occhi seguiva la suocera nella sua danza torturatrice. Guardava infoiata il suo culone e avrebbe voluto morderlo, percuoterlo a sangue. E forse anche lei lo avrebbe voluto.

Poi donna Vittoria le girò dietro e sparì alla sua vista. Smise anche di frustarla. Senti il calore del suo corpo avvicinarsi al suo. Sentì le sue mani farsi improvvisamente delicate sul suo morbido culetto paffuto. La accarezzava con un tocco lieve quasi materno. Con una leggera pressione le fece aprire di più le gambe. Sentì le dita che le dischiudevano la carne. Sentì qualcosa che premeva. Non ebbe il tempo per capire cosa fosse, che si sentì aprire, penetrare e riempire da qualcosa di grosso e duro. Essendo che l’unico membro maschile a disposizione in quel momento stava comodamente alloggiato nella sua bocca ed essendo che un dito di quella donna per quando alta e massiccia non poteva avere quelle dimensioni, cosa poteva essere che cominciava nella mano della suocera e terminava ormai in fondo alla sua vagina? Guardandosi attorno, lo sguardo cadde sul manico del suo frustino, rimasto a terra. Prima non vi aveva fatto caso, ma aveva una forma significativamente fallica. E capì.

In bocca aveva il cazzo del marito, nella figa un aggeggio di gomma nera che la suocera faceva entrare e uscire con mano esperta, accompagnando l’operazione con considerazioni del tipo: “Che carne tenera hai…. E che fighettina stretta e rosa……… però sei bella bagnata. Ti piace farti scopare dalla tua suocerina eh? Piccola troietta mia”. La situazione era decisamente difficile da definire. Che dire? ! ? ! è bello vedere una famiglia così unita.

C’è anche da dire che mi accorgo ora che questo tipo di trittico l’avevo già descritto qualche pagina fa. Per cui sarebbe meglio variare un po’ posizioni e combinazioni. La ripetitività uccide la pornografia. Dunque allora vediamo. Donna Vittoria si alzò, lasciando il frustino appeso tra le cosce della nuora e disse: “Mica vorrai goderti tutto tu”. Tirò per un braccio il figlio, lo fece alzare dal letto, raccattò da terra l’altra frusta e prese il suo posto. Senza quasi accorgersene Silvia si trovò sotto il naso, al posto della virilità maritale, un irsuto vello scuro, con propaggini ricciute che risalivano lungo le pieghe dell’inguine e su fino all’ombelico; e scendevano verso il basso nel solco del sedere. Quant’era pelosa. Davanti agli occhi di Silvia comparve una di quelle immagini del diavolo rappresentato dalla vita in giù come caprone. Ricordò gli insegnamenti delle suore: state attente il diavolo si nasconde sotto molte sembianze, a volte le più insospettabili. Guardò istintivamente dentro le scarpe della suocera per vedere se scorgeva qualcosa che assomigliasse a uno zoccolo. No, non c’era.

Sentì armeggiare nelle sue parti intime. Dal variare della temperatura capì che il posto del manico era stato preso dal marito. Il manico dell’altro frustino invece le fu posto in mano dalla suocera. “Avanti sù, ti ho fatto vedere come si usa”. La prima cosa che venne in mente a Silvia fu: “Come farò a trovare l’entrata in mezzo a questa selva… una selva oscura che la diritta via era smarrita”. Dante. In quella situazione a lei era venuto in mente Dante. Era assolutamente assurdo, ridicolo…… E di nuovo l’inferno. Un altro segno. E se una coincidenza è una coincidenza, due cominciano ad essere un indizio. Sembrava che la suocera leggesse nel suo pensiero. Perchè affondò le dite delle due mani tra i peli e si aprì la figa. Avanti dunque.. Ancora con qualche incertezza appoggiò quel coso di gomma nera al centro di quella carnosità madida e pulsante. E premette. Scivolò dentro senza nessuno sforzo. L’incertezza fu presto messa da parte. E il suo posto fu preso da movimenti decisi. Poi da una vera e propria foga. Quasi rabbia…. o entusiasmo. Vendetta…. o liberazione.

La vecchia Antonia era andata in pensione e da qualche giorno era arrivata una nuova domestica, anzi la nuova collaboratrice, come la chiamava donna Vittoria, molto rispettosa delle forme e della dignità del lavoratore. Il tutto si era risolto in una grossa perdita sotto il profilo gastronomico, ma un notevole guadagno sotto quello anagrafico. Barbara aveva 24 anni ed era una sana ragazzona di campagna. Non era bella, ma il suo aspetto emanava un’allegra vitalità, una sensualità primordiale e semplice. Capelli neri con un taglio decisamente fuori moda, occhi neri e grandi, una fitta peluria scura sul labbro superiore e poi un corpo che, anche quello, sembrava preso fuori da un film neorealista degli anni 50: carnoso, formoso, procace. Faceva venire in mente aggettivi un po’ antiquati. Indifferente a diete e mode: bello, genuino, forte, succoso, turgido, peloso, ignaro ….

Barbara viveva in un paesino non lontano. Era stato un parente di donna Vittoria a suggerire di assumere la ragazza, che era rimasta sola per la morte del padre e della madre in un incidente (poverella, sembra quasi una favola). Non aveva nessuna esperienza nel lavoro di domestica, ma si trattava di fare un’opera buona e allora…. donna Vittoria di certo non si tira indietro di fronte alla possibilità di compiere gesti caritatevoli. E così era venuta a vivere in casa con loro.

Chiusa e timida, come era logico, aveva un vero e proprio terrore di donna Vittoria. Con Silvia invece era entrata rapidamente in confidenza. Durante le lunghe ore che passavano in casa da sole non facevano che chiaccherare. La semplicità disarmante di quella ragazza, così diversa da lei, le dava una grande serenità.

Ma un sospetto, col passare dei giorni, si insinuò in Silvia. Le nacque notando l’abbigliamento che la suocera aveva imposto alla ragazza. Un vestitino nero allacciato davanti, con grembiulino bianco e colletto di pizzo anch’esso bianco. Proprio come le cameriere nei film. La cosa le pareva un po’ ridicola, ma fin qui niente di male, il tutto era abbastanza in linea con il tono generale della casa e della padrona della stessa. Le case sono rivelatrici quasi infallibili della personalità di chi le abita… per chi le sa leggere. Quello che invece non la convinceva era la taglia della divisa, almeno di un paio di misure più piccola del dovuto. Il primo bottone era a metà dello stomaco, l’orlo della gonna ampiamente sopra il ginocchio, cosicchè le forme prosperose della ragazza venivano esaltate in tutta la loro giovanile e casereccia esuberanza. E con quali occhiate madre e figlio la radiografavano.

Barbara non ci faceva assolutanente caso. Del resto come mai avrebbe potuto sospettare qualcosa. Neppure se Silvia l’avesse messa in guardia ci avrebbe creduto. Ma quegli sguardi insistiti sul di dietro di Barbara, non appena questa voltava le spalle, a Silvia sembravano proprio dei sopralluoghi per saggiare il terreno su cui si dovrà compiere un misfatto. E quelle occhiate fra madre e figlio cos’erano se non la lubrica intesa di chi sta pregustando il fiero pasto?

Un giorno Barbara portò in tavola una minestra decisamente salata. Donna Vittoria le disse che una volta per le domestiche responsabili di mancanze gravi erano d’uso anche punizioni corporali. La suocera disse questa cosa con aria serafica, quasi sorridendo. E la cameriera pensò scherzasse. Ma Silvia non ebbe più dubbi: la nuova vittima era già stata designata.

La sua reazione ancora una volta la sorprese. In lei si alternarono in rapida successione: un sentimento di ripulsa, poverina era così innocente e indifesa; poi di gelosia, finchè a lei e al marito si aggiungeva la suocera non si sentiva tradita, rimaneva tutto in famiglia… ma un’altra donna no. Infine di impudica attrazione, l’idea di assistere e fors’anche di partecipare alla sadica iniziazione, era inutile negarlo, l’eccitava alquanto. Seppure gli altri sentimenti continuassero a dire la loro.

Il fatale destino di Barbara si compì, come al solito, nel corso di una cena. L’ignara cameriera si era presentata sconsolata in sala da pranzo, per annunciare che l’arrosto si era trasformanto in un pezzo di carbone. Donna Vittoria non aspettava altro, mai arrosto bruciato era stato accolto con tanta nascosta gioia. Si mantenne molto calma e si limitò a dire: “Dopo cena faremo un bel discorsino”. I tre finirono la cena, semza arrosto naturalmente. Mentre mangiavano Silvia non staccava gli occhi di dosso a suocera e marito. Studiava ogni loro gesto, ogni espressione, ogni sospiro. Cercava di leggere nelle loro facce, nei lampi obliqui dei loro sguardi, nell’increspatura beffarda delle loro labbra, nei movimenti lenti delle loro mani, le tracce dei loro pensieri, qualche frammento leggibile dei loro torbidi progetti. Perchè era sicura che le menti e le parti intime di entrambi erano attraversate da identici impulsi, che lei conosceva sin troppo bene. La loro perversa libidine stava pulsando all’unisono.

I due si erano accorti che Silvia li stava studiando. Ma non per questo cercarono di sviare la sua attenzione. Anzi sembrava che la cosa fosse di loro gradimento. E anche Silvia si era accorta che loro se ne erano accorti. Ma non per questo smetteva di fissarli. Tutti e tre sapevano perfettamente cosa ognuno di loro stesse pensando. E tutti e tre continuavano a recitare la parte. A guardarsi, a lanciarsi messaggi muti e quasi impercettibili, ma ormai chiari ed espliciti. In un gioco di specchi opachi, che univa tutti e tre in una incofessata e inconfessabile complicità. Ancora quella turpe complicità che eccitava tutti e tre terribilmente.

Quando ebbe raccolto col cucchiaino i residui di zucchero dal fondo della tazzina di caffè e le sue labbra ebbero reso il cucchiaino ripulito da ogni particella di criistallo zuccherino, donna Vittoria si alzò. Figlio e nuora fecero altrettanto. Il giudice si diresse verso il salotto e gli altri due la seguirono. La suocera si sedette al centro del divano, Filippo all’estremità. Silvia su una poltroncina un po’ discosta. Il tribunale era insediato. Donna Vittoria, con voce forte, ma abbastanza cortese, chiamò: “Barbara puoi venire qui in salotto, per favore… finirai dopo di sparecchiare”. La ragazza si presentò con una faccia un po’ preoccupata, ma non troppo…..

Nel ruolo questa volta di spettatrice, Silvia ebbe modo di apprezzare meglio, di quanto non gli era stato possibile nel ruolo di vittima, la stupefacente esibizione del diabolico potere di cui quella donna era in possesso. Il copione tutto sommato era quello già messo in scena altre volte, ma l’interpretazione fu davvero magistrale. Da applausi a scena aperta. Anche il male può suscitare ammirazione quando è messo in pratica con la sublime creatività di cui donna Vittoria era capace.

Prese a parlare a quella povera ragazza come avrebbe fatto dall’alto del suo scranno in tribunale. Il tono calmo, pacato, severo, quasi solenne. L’eloquio forbito, a tratti ricercato. Quello che Silvia trovava abnorme e geniale era la serietà e l’autorevolezza con cui quella donna argomentava le sue considerazioni tese in realtà ad uno scopo bassissimo: la soddisfazione dei suoi sconci desideri. La cameriera era indubbiamente intimorita, le dita le tremavano leggermente. Ma più che paura, quella che scendeva sul suo capo chino, assieme alle parole di donna Vittoria, era una sensazione di impotenza, di ammaliamento. Barbara era come ipnotizzata da quella donna. Non capiva neppure bene quello che stava dicendo, ma non aveva il minimo dubbio che fossero cose giustissime. Che qualunque cosa quella donna avesse fatto e o le avesse ordinato di fare era sacrosanta. Anche la più strana e impensabile.

Donna Vittoria tenne una specie di lezione sul rapporto che deve esserci tra padrona di casa e servitù, sulle regole di questo rapporto, sulla grande cultura inglese in questo campo e sulla buona tradizione, sempre inglese, delle punizioni corporali. Quando usò queste due parole Barbara ancora una volta non capì dove stava andando a parare, né avrebbe mai potuto immaginarlo. Era ormai in uno stato di totale sottomissione, anzi di incosciente adorazione verso il proprio giudice. Per Silvia non furono ovviamente una sorpresa. E neppure fu una sorpresa sentire il suo cuore che, a quelle parole, ebbe un’improvvisa accelerazione, la saliva che le affluì copiosa nella bocca e il respiro che le si affannò nel petto. Dovette ammettere con sè stessa che stava pregustando il rito sacrificale che presto avrebbe avuto inizio. Come un lampo attraversò la sua fantasia l’immagine succulenta del candido sedere di Barbara esposto e indifeso e delle innumerevoli combinazioni che tutti e quattro avrebbero potuto sperimentare. Un lampo nel quale si riconosceva l’inequivocabile uncino della dannazione che ormai si era conficcato nella sua anima.

Silvia ne era consapevole, ma era anche certa di non essere per questo diventata un’altra persona. Anzi sentiva di non essere cambiata affatto, di essere sempre la ragazza dolce e sensibile di un tempo. Semplicemente aveva scovato dentro la sua dolcezza un piccolo angolo buio, dove stava celata quella dose di perversione che ognuno possiede. La suocera gliela aveva svelata, ma non per questo aveva perso tutte le altre sue virtù. Queste e quella, era convinta, potevano convivere benissimo, come del resto l’irreprensibile giudice Vittoria Massado dimostrava.

Donna Vittoria dette un’improvvisa svolta alla sua concione con queste parole: sollevati la gonna e scopri il sedere. La reazione di Barbara fu davvero incredibile. Rimase qualche secondo incredula, guardò prima Silvia poi il marito. Trovò nella loro espressione un’implicita conferma dell’ordine ricevuto. Senza neppure tentare una qualche obiezione, una seppur timida protesta, si sollevò lentamente lo stretto grembiulino fino a scoprire le mutandine di cotone bianco che avvolgevano una rotonda e splendente cornucopia di delizie.

Sul volto di donna Vittoria si intagliò un sorriso sulfureo. FINE

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