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La mia cara suocera

La suocera lasciò partire un colpo proprio in mezzo al solco di quella conchiglia di corallo. E poi un altro. Ormai era diventata tutta rossa in volto, la camicetta le si era un po’ sbottonata e a ogni colpo il seno le sobbalzava mettendo in mostra un invidiabile turgore nonostante l’età. Silvia pian piano era scivolata con la faccia lungo le gambe del marito. Mentre il suo povero sedere prendeva fuoco sentì sotto i pantaloni di Filippo qualcosa che si gonfiava e induriva.

“Brutto porco” pensò, ma poi subito ripensò che non era il caso di dar lezioni di moralità. “Ti fa male eh, ma basta che tu chieda scusa e io smetterò…. ”

“Si mi fa tanto male”

“Dove ti fa male… qui” e lasciò partire una scudisciata.

“Sì, lì… ma anche più in giù”

“Dove… qui” e giù un altro colpo

“Sì, proprio lì, ma anche più in basso”

La suocera ansimava ed emetteva gridolini d’eccitazione. Sembrava che anzichè frustare, qualcuno la stesse sottoponendo ad insinuanti attenzioni. Insomma stava palesemente godendo. Come totalmente arrapato era il bravo Filippo, che con le mani premeva la testa della moglie contro i propri pantaloni.

“Ti fa male anche qui? ” E il frustino colpì ancora.

“Aahh sì, come mi brucia lì”. Silvia divaricò le ginocchia ed inarcò il più possibile la schiena, così da porgere alla suocera la sua figa dischiusa. La suocera non se lo fece ripetere e affondò la frusta fra quelle labbra madide di umori. Silvià urlò, ma non ritrasse quel dono offerto, come su un altare sacrificale, alla spietata punizione della suocera. “Sì, lì mi brucia tantissimo… sì, lì, lì… ancora”. Donna Vittoria, sbavando di delirante lussuria, le aprì le natiche con una mano e colpì ancora. E Silvia si contraeva e si apriva ad ogni sferzata. Il supplizio stava ormai dispiegando le ali dell’estasi. Finchè fu scossa da convulsioni, singhiozzò “scusa” e si accasciò sfinita.

Rimasero tutte e tre abbandonati e ansimanti per un bel po’. Poi Filippo disse: “Questa volta Silvia è stata davvero brava, merita un premio, vero mamma? ”

“Sì hai ragione” rispose la suocera e andò in un’altra stanza. Ritornò con un flacone in mano. Si inginocchiò dietro Silvia, che era rimasta immobile dondolando leggermente nell’aria il suo bel culetto martoriato, e versata un po’ di crema nel palmo della mano prese a massaggiarla. Lo faceva con tale delicatezza, che pareva impossibile fosse la stessa persona che poco prima menava fendenti. La crema era fresca e le sue mani sfioravano con dolcezza la pelle dolente. Era una sensazione stupenda, come quando dopo mesi di siccità, sulla terra spaccata dal sole, scende una leggera pioggerellina.

Le mani della suocera senza alcun imbarazzo, l’accarezzavano amorevolmente, spingendosi pian piano all’interno del solco infuocato. Silvia ad occhi chiusi si godeva quel delizioso massaggio, quando sentì contro le sue labbra qualcosa di caldo e umidiccio. Aprì gli occhi e vidi il cazzo del marito ergersi davanti al suo naso, come un grande biberon. Chissà poi perchè le fece quell’effetto. Lì sotto gli occhi della madre-suocera. Ma che cazzo stava succedendo. Pensò di alzarsi, ma il pensiero la sfiorò solo per un attimo. Ormai c’era poco da vergognarsi e da fare la schifiltosa. Richiuse gli occhi e dischiuse le labbra. Prese il biberon in bocca e iniziò a succhiare, mentre le mani della suocera non si fermavano. La crema emanava uno squisito profumo di cocco. La suocera massaggiò ogni punto che era stato colpito. Silvia ormai non capiva più niente. Non sapeva se concentrarsi sulle carezze che le deliziavano le parti posteriori o sul cazzo che deliziava la sua bocca. Non capiva neppure quante mani la stessero toccando. Scivolavano dappertutto su quel lubrificante profumato. Affondavano e si insinuavano ovunque. Era in un tale stato di deliquio che non capì, nè del resto volle capire, se la suocera la stava scopando con le dita. Capì solo che un getto di liquidò caldò le inondò la bocca. E che poco dopo un secondo lunghissimo orgasmo la fece sussultare come mai le era successo.

* * * * *

Donna Vittoria si annodò attorno al collo un foulard di Hermes, si infilò la giacca del tailleur e salutò. Era sempre la prima ad arrivare in tribunale. Pochi minuti dopo anche Filippo prese la sua borsa e uscì. Silvia rimase da sola, seduta in cucina con la tazza del caffelatte di fronte. Con un dito raccoglieva le briciole dei biscotti sparse sul tavolo e se le portava alla bocca. Ovviamente marito e suocera si erano comportati come se la sera prima non fosse accaduto assolutamente nulla.

Il copione era sempre lo stesso. Due ore di depravazione, di follia e poi ognuno rientrava nella sua rispettabilissima facciata come niente fosse. Ma qual era il vero marito e la vera suocera? Il giovane avvocato, l’irreprensibile giudice o i due incestuosi armati di frustino? Silvia si interrogava e si arrovellava disegnando col cucchiaino labili cerchi nel caffelatte. “E io chi sono? La signorina di buona famiglia innamorata di Ridge? O una ninfomane masochista e lesbica? ” E già, perchè ora c’era dentro anche lei e senza alibi a cui aggrapparsi. “Ma no, io lo so chi sono. è da venti anni che sono io. Cioè è da venti anni che sono una ragazza normalissima, seria e per bene. Non posso essere cambiata di colpo”.

Il punto era proprio questo, che aveva sperimentato su sè stessa quante pieghe, quanti angoli inesplorati e avvolti nella penombra possa nascondere l’animo umano. Quanta doppiezza possa esserci in ognuno di noi. Ma non una doppiezza nel senso di una facciata dietro la quale si nasconde la vera e inconfessabile natura di una persona. Ma proprio nel senso di dr Jekhyil e mister Hide. Di come nella stessa persona possano convivere più persone. O meglio di come una persona assomigli a un libro che nasconde tante pagine diverse. Sua suocera, per esempio, probabilmente era davvero un giudice esemplare, ma allo stesso tempo, nell’intimità domestica, era anche un amante di raffinate perversioni. E le due cose, in fondo, convivevano benissimo, nel senso che riusciva a fare bene il giudice e l’amante sadica e l’una attività non danneggiava l’altra.

Insomma, di una cosa ormai Silvia si era convinta: che gli uomini (e le donne ovviamente) sono un bel casino, che si può essere onesti, intelligenti e probi e allo stesso tempo, coltivare qualche perversione e che è sempre meglio non trinciare giudizi. In fondo se lei avesse voluto avrebbe potuto rifiutare quella situazione, ma non l’aveva fatto. “E poi, che significa perversione? Tra adulti consenzienti non esistono perversioni – concluse a voce alta Silvia – se uno prova piacere a farsi frustare, perchè non dovrebbe farlo? Chi danneggia? è molto più perverso chi non paga le tasse”.

“Come dice signorina? ” Chiese Antonia, la cameriera, che si era affaciata sulla porta di cucina.

“Niente, niente… me la prendevo con gli evasori.. ”

“Chi è evaso? ”

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