E mentre noi stiamo qui a filosofeggiare, la povera Silvia se ne stava con le chiappe indifese all’aria, tese e serrate come il portone di una chiesa prima dell’assalto dei sacrileghi. Finalmente un leggero sibilo tagliò l’aria. La pelle di bambagia si rattrapì e i muscoli del suo sedere si contrassero ancora di più. Ma il colpo non era stato forte. Le aveva procurato appenna un leggero pizzicore. Seguirono altri colpi abbastanza lievi. Silvia tirò il fiato e rilassò i muscoli. “Mia suocera non è poi così cattiva – pensò – voleva solo spaventarmi”. Ma la cinghia continuava a fendere l’aria e ogni volta che si appoggiava sulla sua carne lo faceva con più forza.
“Silvia io lo faccio per il tuo bene – diceva la suocera lasciando cadere quell’improvvisata frusta sul quel povero bocciolo di carne rosa – guai a quei genitori che non sanno usare la forza quando è necessaria”. E giù un’altra frustata più forte. “Un giorno me ne sarai grata, nella vita bisogna imparare anche a soffrire. Dal dolore si esce fortificati nello spirito e nel fisico”. Sentenziava e colpiva. E colpiva sempre più forte. Ad ogni colpo il sedere di Silvia si rinserrava in uno spasmo disperato, nel tentativo di diventare sempre più duro e chiudersi in un impossibile guscio. La cintura squarciava l’aria e si abbatteva su quella carne che, da bianca era divenuta rosa e ora stava assumendo una tinta rosseggiante. Silvia, che sino a quel momento era riuscita, mordendosi le labbra, a non emettere neppure un lamento non ce la fece più. Lasciò andare i muscoli del sedere e le sue carni si offrirono indifese e molli alle sferzate. Cominciò a gemere e a implorare che la smettessero. La cosa non intenerì affatto la suocera crudele, anzì sembrò accendere ulteriormente la sua furia. Colpi ancora più violenti si abbatterono su quel fragile bocciolo che ormai si era dischiuso, come sotto i raggi ardenti del sole, in una grande rosa rosso sangue. “Promettimi che starai più attenta, promettimi che non farai più tanti disastri… che sarai una brava bimba, che non fari più arrabbiare la tua suocerina”. Donna Vittoria pronunciava queste frasi in preda a un’irrefrenabile ebbrezza. Ansimava e colpiva in un evidente stato di eccitazione, colta da un fremito che le impastava la voce e faceva uscire parole sconnesse dalle sue labbra.
Silvia rimase alcuni minuti abbandonata con il sedere infuocato e paonazzo che anelava anche al più piccolo refolo d’aria che potesse ristorarlo. La suocera si ricompose, si raccolse le ciocche di capelli che erano sfuggite all’impeccabile acconciatura e si asciugò le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e la gola. Silvia la guardava indecisa su quale sentimento provare: odio, disgusto, vergogna, paura, vendetta. Forse un po’ di tutto, ma forse anche qualcosa d’altro, qualcosa di indefinibile. Si chiuse nella camera degli ospiti e passò un bel po’ di tempo col sedere a mollo nel bidet. Tentò di infilarsi le mutande, ma le facevano troppo male. Andò a letto senza.
Ma non riusciva a prendere sonno. Si rigirava nel letto tormentata da incubi a occhi aperti e ogni volta che sfiorava col suo culetto gonfio il lenzuolo sentiva un grande dolore. Ma non riusciva a stare ferma. E ad ogni movimento il dolore le partiva dal sedere per risalire tutto il corpo. Le bruciava tutto, ma continuava ad agitarsi. A muoversi come in una danza di autotortura, in preda ad una smania inspiegabile. Quasi senza accorgersene si era messa in schiena e con le ginocchia sollevate si massaggiava il sedere sul lenzuolo ruvido. Provava uno strano dolore dal quale non riusciva a separarsi. Più il bruciore le si conficcava nelle carni come mille aghi roventi, più insisteva a sfregarsi. Non capiva assolutamente cosa le stesse succedendo. Sapeva solo che non riusciva a cessare quella danza dolente e piacevolissima. Ogni volta che premeva quella rosa scarlatta, che ormai aveva al posto del sedere, sentiva come un brivido infuocato e poi gelido che le risaliva la schiena, le attraversava la testa e ridiscendeva sino in mezzo alle sue gambe. Accavallò le cosce e le strinse forte. Non aveva assolutamente il coraggio di farlo, ma doveva pur verificare se stava sognando o no. Se era già in pieno delirio da febbre o invece le stava accadendo una cosa stranissima e mai conosciuta prima. Si decise. Insinuò un dito tra le cosce e si toccò la figa. Era allagata, come non le era mai capitato di sentirla. Ritrasse il dito quasi vergognandosi, anzi a dire il vero un po’ spaventata. Come poteva tanta sofferenza averla ridotta in quello stato? Poi non seppe resistere, ve lo immerse di nuovo e riprese a strusciare il culo martoriato. Pochi secondi e il dolore si sciolse, sprofondò come in un gorgo sublime dentro la sua vagina e ne riemerse sottoforma di un piacere intenso, aspro, inimmaginabile.
Che cosa avrebbe dovuto fare? Andarsene di casa? Denunciare suocera e marito? Metterle del veleno nel piatto? Scartò subito l’ultima ipotesi, non ne sarebbe mai stata capace. Scartò anche la denuncia, figurarsi se qualcuno avrebbe mai creduto alle sue accuse contro lo stimatissimo e inflessibile giudice Vittoria Massado. Non le rimaneva che fuggire. Ma la fuga è qualcosa che non s’improvvisa, s’impara da piccoli. Non è cosa facile fuggire e Silvia aveva sempre respinto quell’istinto, sino a sradicarlo da sè. E ora? Si sarebbe alzata, sarebbe scesa a far colazione e avrebbe deciso che fare. Sapendo già che forse non avrebbe preso nessuna decisione.
Anche perchè nella sua mente, non meno febbricitante del suo didietro, si agitavano forze contrastanti. Nebbiose e sfuggenti per lei, ma in realtà ormai chiarissime per chiunque. Vediamo di esporle schematicamente. Tralasciamo le ragioni per dare un taglio netto a quella situazione, perchè sufficientemente evidenti e passiamo a quelle che spingevano ad accettare che il fato compisse il suo lavoro. In primo luogo andavano messi sulla bilancia i pro e i contro di quel matrimonio: da un lato, è vero, c’erano stati quei due insopportabili affronti, ma dall’altro c’era un menage nient’affatto insoddisfacente. Felice Silvia non era, ma in quella casa si sentiva protetta, sicura e in fondo abbastanza libera. In secondo luogo tra lei e la suocera era già scattata quella sindrome d’odio-amore che lega spesso il carnefice e la sua vittima. Sicuramente odiava quella donna, ma sicuramente ne era anche affascinata. La temeva, ma ne era attratta, come spesso attraggono irresistibilmente le tenebre, quando ad attraversarle sono lampi nefandi. Era stregata da quella personalità diabolica a tal punto da vederla in alcuni momenti bellissima. Una specie di angelo del male che la torturava, ma da cui forse un giorno avrebbe attinto qualcosa dalla sua forza dominatrice. E infine c’era quella strana appendice che le scudisciate avevano avuto tra le lenzuola del suo letto. Le tornarono alla mente le parole del marito: “Vedrai, non è poi male come sembra”. E le parvero ora più inquietanti che mai.
In casa, come già la volta precedente, nessuno fece il minimo cenno a quanto era successo la sera dell’anniversario. Tutto era tornato come prima, solo donna Vittoria, nei giorni successivi, si mostrò particolarmente affettuosa con entrambi. Ma Silvia non si dava pace nel suo tentativo di andare a fondo di quella questione. La questione dell’appendice tra le lenzuola, s’intende.
L’arrosto alle prugne che Antonia, la domestica, aveva preparato era davvero eccellente. Ne mangiarono tutti e tre un bel po’. Donna Vittoria, quando si trattava di godere dei piaceri della tavola, metteva da parte la sua austerità, soprattutto se ad accompagnare l’arrosto era dell’ottimo Gattinara. “Silvia per favore mi versi un po’ di vino? “. A tavola amava farsi servire. Silvia prese la bottiglia e l’avvicinò al calice di pesante cristallo sfaccettato. Anche le stoviglie erano di quel gusto un po’ vecchio castello, che piaceva tanto a donna Vittoria. Appoggiò il collo della bottiglia sul bordo del bicchiere e guardò negli occhi la suocera, la fissò per alcuni secondi, le era così vicina che sentiva l’odore del vino che emanava il suo alito.
Versò il vino. Aveva le mani sudate, ma la colpa non fu del sudore. Quando il bicchiere fu quasi pieno gli diede un piccolo colpo con la bottiglia e lo rovesciò. Il lino bianco della tovaglia divenne color sangue. Continuarono a fissarsi ancora per qualche secondo. Sfida e incredulità, complicità e ansia si specchiarono nei loro sguardi. “Che disastro che ho combinato, mi scusi… ora asciugo…. non so proprio come ho fatto”.
Filippo la guardava stupefatto. Un sottilissimo sorriso increspò le labbra di donna Vittoria, come una lama di luce sinistra. Si alzò in piedi, si scrollò con calma qualche briciola di pane dalla gonna. Si passò il tovagliolo sulla labbra. Tirò un lungo e gustoso sospiro che le gonfiò il petto imponente. “Lo sai quello che ti aspetta” disse con voce calda, quasi affettuosa. “No, no, non l’ho fatto apposta.. “. “E invece penso proprio che tu abbia bisogno di una nuova lezione”.
“Silvia, mamma ha ragione- interevenne Filippo – guarda come hai ridotto quella tovaglia. Lo sai che era un suo regalo di nozze? “. “Avanti Silvia – continuò la suocera – non fare storie. Se non fai resistenza sarà tutto più semplice”. E a quattro mani iniziarono a spogliarla. “No, vi prego, lasciatemi stare. Vi giuro che la prossima volta starò più attenta” continuava ad implorare Silvia, ma anzichè dimenarsi e scalciare, come l’altra volta, sembrava quasi assecondare l’opera del marito e della suocera. Questa volta non le tolsero solo la gonna, ma anche la camicetta. Silvia rimase in piedi appoggiata alla tavola con addosso solo il completino di pizzo nero che le aveva regalato la suocera. Filippo e la sua mammina rimasero per un alcuni secondi bloccati e senza parole. La loro preda era ormai nella tela, ma non ci era caduta, ci si era avvolta con innocente perversione. Ma ad aumentare la sorpresa era l’aspetto di Silvia. La crisalide non c’era più, ora avevano davanti agli occhi la farfalla. Sembrava impossibile, ma quello splendido corpo infiocchettato di provocante pizzo nero era uscito dal bozzolo della timida e brava ragazzina.
Silvia cercava pudicamente di coprirsi con le braccia. “Questa volta sarà meglio legarla”. Le parole della suocera ruppero il silenzio come un’unghiata e dai suoi occhi sprizzavano lampi luciferini. La farfalla si era lasciata prendere nella tela, ma il gioco era appena iniziato e il ragno non voleva cambiarne le regole, così continuò a tessere la sua tela ignorando la resa.
Filippo come al solito eseguì diligentemente l’ordine. Prese da un cassetto due pezzi di corda grossa e bianca, sembrava di seta. Gliela legò ai polsi. Silvia ebbe paura e tentò di divincolarsi. Ma ormai era tardi per uscire dal gioco. Le bloccarono i polsi ai due braccioli di un divano stile Luigi XV, con le braccia aperte come in croce, e la fecero inginocchiare. Filippo si sedette sul divano e le fece appoggiare la testa sulle sue ginocchia. Ora il suo sedere si protendeva nell’aria, come una magnifica torta offerta su un vassoio di pizzo nero. Donna Vittoria rimase un po’ a contemplare quell’opera d’arte. Tale era l’incantesimo di quelle linee curve che si congiungevano e si separavano a disegnare globi di un armonia perfetta, che solo le cupole delle chiese riescono ad eguagliare. Quell’incanto ora era lì alla sua mercè, avrebbe potuto distruggerlo e ricomporlo ancora più sublime in una fusione di dolore e piacere.
Donna Vittoria frugò in un cassetto, mentre Silvia tendeva ogni fibra del suo corpo in attesa che il suo destino si compisse. La suocera finalmente si avvicinò picchiettandosi sul palmo della mano un frustino, tipo quelli che si usano per l’equitazione. Lasciò partire un paio di colpi sulle cosce, come per assaggiare l’efficacia del nuovo strumento. Poi un centimetro alla voltà cominciò a risalire verso quel mappamondo carnoso. E ad ogni centimetro la forza dei colpi aumentava fino a che una staffilata le si abbattè in pieno sul sedere con uno schiocco, che sembravano i piatti di un orchestra. Silvia emise un gemito rauco e si morse le labbra. La suocera continuava a colpire con calma e fredda determinazione.
“Chiedi scusa per quello che hai fatto e prometti che non lo farai mai più. Altrimenti continuo”.
“Non ho fatto nulla di male… “. Altre due frustate lasciarono la loro impronta su quelle tenere carni.
“Chiedi scusa se vuoi che smetta”.
“Ahahah come mi brucia… vi prego smettete”
“Se vuoi che smetta devi chiedere scusa” e giù altri due colpi
“Tanto quella tovaglia era anche brutta… ”