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Sandra (1 di 3)

La stanza era illuminata solo dalla luce rossastra che proveniva dal caminetto acceso.
Nell’ aria risuonavano le note della “Madama Butterfly” di Puccini.
Mi avvicinai con passo insicuro alla poltrona coloniale piazzata davanti alla bocca del camino, talmente vicina che se non ci fosse stato il parascintille si sarebbe sicuramente bruciata.
Da dietro la spalliera vedevo emergere, tenue, un sottile filo di fumo.
Una mano di donna, la sua mano, mi fece cenno di aspettare, le note si fecero sempre più forti e presenti, io mi bloccai in attesa che finisse quel crescendo e di note e di emozioni.
Appena la musica finì una voce mi accolse: “Vieni avanti, amore, ti aspettavo”
Si alzò dalla poltrona e andò a spegnere lo stereo.

Rimase a guardarmi per alcuni interminabili istanti come se già sapesse cosa volessi fare e poi disse con voce calda e commossa: “La musica di Puccini è unica, ti scuote l’ anima !”.
Aveva gli occhi lucidi.
“Perchè sei qui?” mi disse.
Ebbi un fremito, misi la mano in tasca e ne estrassi la pistola che avevo caricato con cura poche ore prima.
Con mano tremante glie la puntai addosso e feci fuoco.
Ricordo solo le sirene, l’ abbagliante luccichio delle manette ai miei polsi e i titoli dei quotidiani del giorno dopo: “Delitto passionale nella nostra città, il giovane Piero Marini Frejes uccide, con un colpo di arma da fuoco alla testa, Sandra Lucani”.

Avevo conosciuto Sandra ad una festa di beneficenza, una di quelle feste in cui ci si annoia e nelle quali si va solo per la nobile causa che le muove.
Io ero lì come “rappresentante” della mia famiglia troppo impegnata tra Courmayeur e Cortina per potere fare del bene.
“Mi raccomando – mi disse mio padre prima di partire con in dosso la sua salopette di marca – fammi fare bella figura”.
La cosa mi aveva disturbato alquanto e sulle prime la mia intenzione era quella di non andare, poi però optai per il contrario.
Avevo dato “giornata libera” alla servitù.
“Mi serve la casa libera, chissà che magari non riesca a rimorchiare la figlia di qualche industrialotto” pensai con la solita fredda cretineria di chi è abituato ad avere tutto dalla vita.
Andai alla festa con quell’ unico obbiettivo.
Nella salone delle feste del “Morlacchi” (grande albergo di lusso della mia città) c’erano solo vecchie mummie ingioiellate con i loro chauffeurs impettiti e grassi imprenditori con i vestiti freschi di sartoria.
A quella vista mi ricordai della causa per cui eravamo li e mi diressi verso il maestro di cerimonie a consegnare l’ assegno che mio padre aveva staccato prima di partire.
Poi mi diressi al tavolo dei rinfreschi e mi versai un whisky che sorseggiai appoggiato alla balaustra della terrazza “Titanic” (detta così per la sua splendida vista a strapiombo sul mare).
Ero schifato da tutto quel lusso sfrenato, da quegli scintillii accecanti, da quelle risate sguaiate.
Pensai con tristezza che anche io facevo parte di quella “cerchia”, e magari alla loro età sarei diventato come loro.
Vedevo già il fondo del bicchiere, quando una voce mi fece svegliare da quella sorta di coma in cui mi trovavo.
“Che bella serata, si vedono le stelle”.
Mi girai e alla mia destra vidi una ragazza bruna, con i capelli lisci e raccolti dietro in un toupet molto curato, gli occhi cerulei, non era bella, era piuttosto magra, ed un poco troppo alta per i mie gusti, ma mi affascinava come poche altre.
Aveva un modo di porsi e di parlare che ti lasciavano in estasi.
Avrei potuto ascoltare quella voce per ore senza stancarmene mai, proprio io che non potevo seguire la stessa cosa per più di dieci minuti e ben lo sapevano i miei tutori che per farmi arrivare ad uno staccio di diploma si erano dannati l’ anima.
“Bhè ? Cosa c’è da guardare ? Mai vista una donna ?”
“Mi scusi signorina, ma non pensavo ci potesse essere anche lei in mezzo a queste ….” e mi fermai per paura di fare una gaffe.
“In mezzo a queste salme ?” continuò lei ridendo.
Accompagnai il suo sorriso con il mio ed aggiunsi “si, non volevo dirlo, pensavo potesse esserci suo padre qui in mezzo”.
“No! Sono sola, i miei sono alle Bahamas a divertirsi, io sono rimasta per via della nonna”

Mi soffermai a guardarla ancora più rapito.
“Che ne dice di fare una passeggiata ?” mi propose lei sottovoce
“Con vero piacere, ma prima mi permetta di presentarmi, io sono Piero Marini Frejes, dei Frejes di Martinpietra” (così mi avevano insegnato sin da piccolo a presentarmi, io ero sempre stato un pò ribelle a questo nome da film fantozziano ma mi convinsi a forza di stare in ginocchio sui ceci).
“Piero Frejes ? Il Baronetto ? Ma daiiiiii, che onore, io sono Sandra Lucani e basta…..che ne dice se ci diamo del tu ? Così evitiamo di imbrogliare i nomi con i cognomi e le discendenze ! Non credi ?”
Era già passata al tu sapendo che non glie lo avrei negato, mi sembrava uno spirito ribelle a quelle finte magniloquenze alle quali dovevo sottostare da una vita e questo non faceva che aumentare la mia attrazione nei suoi confronti.
“Ma si, diamo ci del tu …. Noi non siamo come quelle salme!”
Ci incamminammo per i vialetti dello splendido giardino, sembrava che il mondo fosse sparito e ci fossimo solo noi e gli oleandri che perimetravano i vialetti ricoperti di ghiaia.
Ci sedemmo su una panchina, mi prese sottobraccio e mi poggiò la testa sulla spalla.
I suoi capelli odoravano di orchidea e, pur se flebili, i raggi lunari che filtravano attraverso il muro d’edera alle nostre spalle, si riflettevano su quei fili di seta bruna.
“Hops, perdonami, non avrei dovuto” disse Sandra interrompendo quel momento fantastico e allontanandosi.
“Chissà cosa penserai di me adesso …. Mi sono lasciata andare, non ci conosciamo nemmeno”.
“No ! No, ti prego, se ti fa piacere puoi anche rimetterti in quella posizione … a me non dava alcun fastidio”
“Meglio che rientriamo, fa molto fresco” disse lei alzandosi.
Mi alzai anche io, mi tolsi la giacca dello smoking e glie la misi sulle spalle ma nel farlo la tirai verso di me e la baciai.
Le sue braccia mi strinsero, e con una mano mi accarezzava la nuca.
Abbassai una mano alla ricerca delle sue gambe che non faticai a trovare.
Cominciai  una carezza e gradualmente alzavo la sua gonna.
Trovai finalmente la fine delle calze avvicinai la mano al suo pube e la trovai bagnata.
Nel frattempo le sue carezze si erano fatte più intime: mi aveva abbassato la zip dei pantaloni ed aveva infilato la sua mano dentro i boxer, cominciando una lenta masturbazione.
Il suo respiro si era fatto affannoso, le nostre bocche continuavano a rimanere unite in un incrocio osceno delle nostre lingue.
La mia mano, ormai diventata padrona delle sue intimità, era completamente ricoperta dei suoi umori.
Venimmo tutti e due accasciandoci al suolo stremati da quell’ orgasmo.
Mi distrassi un attimo per ricompormi e tornare presentabile, quando mi girai non la trovai più, e sulla panchina, accanto a me c’era la mia giacca.
Me la rimisi e mi ridiressi verso il salone dove c’erano solo i camerieri che stavano sparecchiando.
Uscì dall’ albergo, il mio autista (l’ autista di mio padre) mi stava aspettando, salì in macchina, l’ autista mi chiese “A casa signorino?” abbassai la testa ancora sconvolto da quell’ evento.
Misi una mano in tasca per prendere le sigarette ma sentì qualcosa di strano al suo interno.
Era il biglietto da visita di Sandra.

FINE

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