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Mustafà

Mustafà se ne stava tutto il giorno all’incrocio fra Via Garibaldi e via Cavour a pulire i vetri delle autovetture ferme ai semafori, racimolando a fine giornata poche migliaia di lire. La scorsa settimana Mustafà fu ricoverato d’urgenza in ospedale, dopo che per un malore svenne sui marciapiedi di quell’incrocio a causa di un’intossicazione, dovuta all’inalazione di gas tossici provenienti dallo scarico delle auto. Mustafà si trovò così a suo agio in ospedale che una volta dimesso, trovò un’ideale sistemazione nello scantinato di quella stessa Clinica, che fino a qualche giorno prima lo aveva avuto come degente.
Il freddo intenso di questo inizio d’inverno costrinse parecchi immigrati extra comunitari a trovare riparo nei posti più impensati. I locali dello scantinato della clinica, seppure vetusti e scalcinati, avevano il pregio di essere riscaldati per la presenza delle tubature dell’impianto di riscaldamento della clinica.
Mustafà si era organizzato alla perfezione. Dopo aver trascorso la notte a dormire su una branda, al mattino la riponeva dietro di uno dei tanti armadi presenti nel corridoio e prima che il reparto di degenza si riempisse di medici e d’infermieri, saliva lungo la scala che dalla cantina conduce al reparto. Vestito di pantaloni, canottiera, ciabatte e con un asciugamano sulle spalle si dirigeva diritto verso il bagno dei degenti. Lì vi rimaneva chiuso per una decina di minuti. Trascorso quel tempo Mustafà ne usciva tutto sorridente pronto ad intraprendere una nuova giornata di lavoro.
Durante il precedente periodo di ricovero Mustafà fu trattato da tutto il personale, medici compresi, con molto garbo ed affetto, faceva compassione vedere un ragazzo così giovane mendicare un poco di monetine o qualche mille lire agli automobilisti fermi agli incroci.
Durante il suo ricovero ebbi modo di conoscerlo a fondo, mi confidò che era partito circa due anni prima dal suo paese, il Marocco, e che dopo avere percorso in lungo e in largo l’Italia si era fermato nella nostra città, trovandola particolarmente accogliente.
Mustafà aveva trent’anni ed era laureato in Ingegneria meccanica. Il viso scavato e il corpo smagrito lo facevano apparire più vecchio di quello che in realtà era Bastarono quei sette giorni di ricovero per vederlo rifiorire nell’umore e nell’aspetto. Mangiava sempre con molto appetito e spesso gli succedeva di chiedere anche una razione aggiuntiva al proprio pasto, che naturalmente non gli era mai negata.
Anche ora che seppure abusivamente risiedeva nella nostra cantina, qualcuna di noi ragazze ogni sera gli portava un tegamino con carne e formaggio o quant’altro avanzava dopo la distribuzione dei pasti ai degenti.
Succedeva spesso che anch’io di sera, al termine del turno di lavoro, mi fermassi con lui a scambiare alcune chiacchiere e consegnargli un poco di cibo.
Mustafà mi parlava sempre volentieri del suo paese, dell’Alto Atlante, delle Città Imperiali, della Casba di Fès, delle meraviglie di Marrakech, soffermandosi però più a lungo a descrivere la sua città di origine, Ouarzazate di cui magnificava i paesaggi pittoreschi e le particolari caratteristiche delle abitazioni, uniche nel loro genere.
Mi parlava di località distanti tra loro poche ore di viaggio ma così ricche di contrasti, dal paesaggio africano col suo deserto del Sahara, agli altipiani e alle catene montagnose che lo separavano dall’oceano. Durante i suoi racconti mi prendevo a sognare. Le sue descrizioni mi affascinavano, forse un giorno pensavo, avrei potuto visitare anch’io quei posti.
Anche l’altra sera dopo aver terminato il servizio mi ero soffermata a parlare.
Lui, gentile come sempre mi fece sedere a ginocchia incrociate per terra, dove in precedenza aveva badato a stendere un tappeto e mi offrì un tè caldo alla menta. Lui si mise di fronte a me con il bacino flesso sulle ginocchia a sfiorava il tappeto, un modo di sedersi comune alle tradizioni della gente del suo paese. La conversazione proseguì per una decina di minuti, fino a quando dopo aver terminato di sorseggiare il tè mi rialzi e lo salutai dirigendomi verso lo spogliatoio.
Avevo fatto pochi passi, quando mi sentii aggredire alle spalle da due mani che contemporaneamente mi otturarono la bocca e mi sollevarono di peso da terra. Mi sentii trascinare verso la porta di uno sgabuzzino completamente buio. Una grossa striscia di cerotto si frappose sulle mie labbra e ben presto anche le mie mani si trovarono imprigionate da una corda, dopodiché la porta si chiuse e rimasi sola con il mio aggressore in quella stanza al buio.
La sorpresa fu tale che non ebbi nemmeno la forza di gridare o di reagire.
Il cuore sembrava uscirmi dal petto dallo spavento, il panico ebbe ragione delle mie già scarse difese. I miei occhi scrutavano nell’oscurità il volto del mio assalitore, ma già sapevo la sua identità.
Mustafà stava davanti a me, non lo vedevo ma potevo sentire il suo respiro affannoso.
Il tempo sembrava trascorrere lento, ma forse era solo una mia impressione, chissà a cosa stava pensando e quali fossero le sue intenzioni. Lo scoprii in breve tempo.
Con un coltello prese a tagliare le mie vesti fino a ridurle a brandelli.
Ero rimasta con indosso solo con le mutande e il reggiseno, non pago recise le mie mutandine ai fianchi che le sentii scivolare ai miei piedi.
In tutto quel tempo Mustafà continuò a non dire una sola parola. Avrei voluto gridargli di fermarsi che stava commettendo una sciocchezza e che ne avrebbe pagato le conseguenze, ma il cerotto che così bene aveva inserito davanti alla mia bocca, m’impediva una qualsiasi parola. Nemmeno potevo divincolarmi dal momento che avevo le mani legate.
Me ne stavo tutta rannicchiata per terra quando sentii una mano cingermi attorno alla vita e sollevarmi di peso. Con forza mi rivoltò e mi mise in ginocchio col capo rivolto a terra. Lui se ne stava dietro di me. Con una mano cercò di divaricare le mie gambe, ma io presi a fare resistenza.
– Guarda che se non stai buona e non mi lasci fare quello che voglio, io ti ammazzo! Non sto scherzando –
Con ancora più forza e decisione allontanò le mie gambe che si apersero senza opporre resistenza. Sentii il palmo delle sue due mani adagiarsi sui miei glutei ed afferrarli, mentre quello che immaginavo essere il suo cazzo iniziò a puntarmi il foro del culo.
Per quanto Mustafà si sforzasse e l’avesse duro non riusciva a farlo entrare, vuoi per le mie resistenze o più probabilmente perché il mio buchetto era sin troppo stretto.
– Se non ti rilassi e me lo lasci entrare io ti taglio la gola, te lo dico per l’ultima volta –
Cosi facendo lo sentii sputare un poco di saliva sulla sua cappella e probabilmente anche sulle dita di una mano che sentii subito dopo sfiorare umida tutt’intorno al mio bucchetto fino a penetrarmi.
Ora sentivo il suo cazzo premere vigorosamente sul di me ed entrare centimetro dopo centimetro nel mio culetto, guidato dalle dita della sua mano.
Anche se nessuno poteva sentirmi, urlai con quanto più fiato avevo in gola per il dolore, cercando di sfuggirgli ma invano Probabilmente con lo spessore del suo membro mi aveva lacerato lo sfintere.
– Sei terribilmente stretta – mi disse mentre affondava il suo “bastone” nella mia cavità.
Avvilita e presa dallo sconforto pensai che l’unica cosa da fare era quella di soffrire il meno possibile e d’assecondarlo colpo su colpo. Fu così che presi a muovermi ritmicamente seguendo i suoi movimenti, anche se nel frattempo il buco del mio bel culetto continuava a bruciarmi.
Il suo cazzo affondava ora con più vigore rassicurato dalla mia collaborazione, lo sentivo eccitato connettere frasi nella sua lingua d’origine. Di tanto in tanto rallentava nella sua azione, per poi riprendere ancora più energicamente e con maggior vigore.
– Ti faccio male? -mi chiese
– No! – mentii – è un piacere, continua ancora a fottermi –
– Aaah! Come godo! Com’è morbido il tuo bel culetto! –
Il dolore si fece ancor più intenso, probabilmente avevo cominciato a sanguinare.
Finalmente a forza di spinte e strattoni lo sentii essere prossimo all’eiaculazione. Iniziò a tremare tutto, da capo a piedi fino a quando dopo un ultimo affondo emise un urlo di piacere e si accovacciò sulla mia schiena per alcuni interminabili secondi, dopodiché tirò fuori il suo membro che sentivo ancora duro.
Nel silenzio di quei lunghi attimi, il panico s’impadronì di me. Iniziai a tremare per il freddo ma ancora più per la paura di ciò che ora poteva succedere. Quali erano le intenzioni Mustafà? Avrebbe continuato a violentarmi? Mi avrebbe uccisa? Tutti questi pensieri passarono velocemente per la mia testa in quegli attimi che sembravano eterni.
Mustafà invece si rialzò. Nel buio non potevo vederlo, ma lo sentii ricomporsi i pantaloni, dopodiché mi disse:
– Spero che ti sia piaciuto, mi raccomando però di non raccontare a nessuno quanto è accaduto perché altrimenti io ammazzo te e i tuoi genitori. Capito! –
Mi liberò dal cerotto che mi premeva la bocca e subito dopo dai legami che serravano le mie braccia. Mi alzai e prima di uscire dalla porta del ripostiglio mi girai verso di lui.
– Non ti preoccupare, non dirò niente a nessuno, è stato molto bello quello che abbiamo fatto questa sera, ti ringrazio per avermi fatto godere in quel modo –
Aprii la porta e la luce del corridoio inondò la stanza. Raccolsi quel che rimaneva dei miei abiti sparsi sul pavimento ed uscii.
Mentre percorrevo il lungo corridoio che mi separava dallo spogliatoio sentivo ancora addosso lo sguardo di Mustafà, che probabilmente mi osservava mentre mi allontanavo.
Appena giunta a casa, ancor prima di gettarmi sotto la doccia mi guardai con uno specchietto fra le cosce. Ero piena di lividi e di sangue coagulato.
L’acqua purificatrice servì ad asportare dal mio corpo tutto quel lerciume ma nell’intimo ero ferita. In qualche modo gliela avrei fatta pagare.
L’acqua della doccia per quanto purificatrice, non attenuò il bruciore che avevo nel mio sfintere, così mi sedetti per una decina di minuti sul bidè ad ammorbidire la mia pelle, dopodiché per ultimo gli passai sopra un poco di acqua di rose.
La sera successiva mi presentai ancora da Mustafà con il solito vassoio della cena, gli avevo portato un poco di minestra, una fetta d’arrosto e verdura cotta.
– Tieni – gli dissi – Ora però ti devo salutare perché ho fretta, ho un amico fuori che mi aspetta. Ci rivediamo domani sera – gli dissi per rassicurarlo, ed uscii.
Non ho più rivisto Mustafà, dopo alcuni giorni lo hanno ritrovato cadavere nello scantinato. C’è chi afferma che sia morto per il freddo o chi dice per gli esiti dell’intossicazione da monossido di piombo.
Nessuno si è accorse del nitrato di sodio che gli avevo mescolato nel suo ultimo pasto. FINE

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Luce bassa, notte fonda, qualche rumore in strada, sono davanti al pc pronto a scrivere il mio racconto erotico. L'immaginazione parte e così anche le dita sulla tastiera. Digita, digita e così viene fuori il racconto, erotico, sexy e colorato dalla tua mente.

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