Le tette, quelle le ho sempre avute. Piccoline, per carità. Ma giunto all’età in cui a tutti i maschietti spuntano i peli e si allunga il pisello, a me spuntò sì qualche pelo e mi crebbe – non molto, per la verità – l’uccellino; pure le poppe, però, mi si ingrossarono ulteriormente, in una maniera un tantino fastidiosa, perché mi bastava andare a mare che tutti mi guardavano, mi bastava indossare una magliettina bianca o aderente che i più stupidi dei miei compagni mi chiedevano che misura portassi di reggiseno. E io, incuriosito, cercavo di dare una risposta ai loro dilemmi: a casa, quando ero rigorosamente da solo, perché se mi avessero scoperto mi sarei sparato, mi provavo i reggipetto delle mie sorelle e notavo che la seconda misura mi stava appena un pizzichino larga.
Naturalmente non c’era solo chi si limitava alle battute. C’era pure chi ogni tanto allungava le mani. Era una cosa che odiavo, o forse che dovevo odiare, perché in realtà mi piaceva toccarmele, palpeggiarle, massaggiarle dolcemente. Mi ci facevo le migliori seghe tenendo in mano la tetta sinistra, perché la mano destra mi serviva per maneggiare il mio coso. Quando però si trattava di toccamenti da parte di altre persone, fuggivo e mi arrabbiavo.
Era il mio modo di rifiutare una diversità che sentivo affiorare prepotentemente, giorno dopo giorno, assieme a quel piccolo seno.
Che poi non era solo il seno. C’era anche il culo. E i fianchi, più larghi del normale. Vabbè, grasso superfluo, mi dicevo. Andrà via. Invece cresceva, anche lui. La barba era appena un’ombra, sembrava la peluria rada di una donna nerboruta. Ma era l’unica cosa che mi faceva assomigliare a un maschio e così la portavo sempre lunga. Se però mi si guardava da dietro, sembravo una signorina. Se mi si guardava di fronte senza vedermi in faccia, pure.
Forse era per questo che tutti, proprio tutti, mi consigliavano di radermi. Avevano ragione: il mio bel faccino dal tratto femmineo era rovinato da quei pelacci, che su di me sembravano proprio fuori posto.
Vissi un’adolescenza normale. Normale se fossi stato una ragazzina. Mi masturbavo pensando ai miei amichetti, presi la prima cotta per il compagno di banco, la prima pomiciata della mia vita la feci con lui, senza mai baciarlo. Che bello, che era! Perlomeno, a me piaceva: alle ragazze “vere” non tanto. Forse per questo veniva con me. Il nostro era un amore vero, all’inizio platonico. Qualche carezza, qualche sguardo intenso, complice. Però non facevamo quasi niente: ci toccavamo senza spogliarci. Nemmeno ci masturbavamo a vicenda. Ma solo a lui permettevo, ogni tanto, di mettermi le mani sulle tette.
Passarono gli anni e un giorno, mentre studiavamo per la maturità, mi fece sedere su di lui: il mio culetto sul gonfiore del suo pube. Fu una sensazione incredibile: mi sentii invaso da uno strano calore. Lui mi toccò davanti, poi mi chiese se poteva mettere le mani sotto la camicetta e mentre ancora stava finendo di farmi la domanda, già torturava i miei capezzoli senza più barriere: i suoi polpastrelli caldi sulla mia carne ansiosa di carezze. Cominciai a muovermi su di lui, lui fece la stessa cosa sotto di me. Mi poggiò un bacio sul collo, io mi girai per cercare la sua bocca… Cosa stavo facendo, mi dissi, volevo baciarlo! Mi tirai su, mi misi in piedi: “Basta – gli dissi ansimante – fermiamoci prima che sia troppo tardi”. “E’ già troppo tardi”, sentenziò lui, tornando a mettermi le mani sulle tette. Cercai di respingerlo, ma era più forte, anche perché era alleato con una buona parte di me. Mi fece crollare sul letto, mi piovve di sopra. Avevo la sua bocca dovunque: sul collo, sulle guance, sul seno, sui capezzoli. “Amore”, mi diceva toccandomi con convinzione proprio lì sotto, “sei la mia fidanzatina, la mia puttanella…”. Mi eccitai tantissimo, nel sentirmi chiamare in quel modo: “Sì – risposi, mentre sentivo l’ormai inevitabile orgasmo – sono tutta tua…”. Venni dentro i pantaloni, dentro le mutande e un attimo dopo ero già ritto, seduto sul letto, pentito fino al midollo di quel che avevo fatto, lasciato fare e di quel che avevo detto. Lui mi guardava con aria rapita, sorridendo come un ebete. “Ora tocca a te”, disse senza che si potesse equivocare quel che intendeva: si mise infatti in piedi, di fronte a me, strusciandomi le poppe nude con il suo gonfiore. Non sapevo da dove cominciare: sapevo solo che dovevo farlo. Ci misi una mano sopra, ma mi veniva male, senza spogliarlo. Quasi automaticamente misi una mano sulla sua cintura, iniziai a slacciarla e già mi chiedevo cosa cavolo stessi combinando. Ma era tardi: dopo la cinta saltò anche il bottone, e poi la lampo e lo slip. Non so dire se fu lui a darmelo in bocca o io a prenderlo. So solo che l’odore di sperma era intensissimo e che lo divenne ancora di più man mano che andavo avanti e che con la mano e con la lingua glielo scappucciavo fino a lasciarlo tutto scoperto, nudo. Volevo fare le cose per bene, come avevo visto fare nei film porno, leccandolo anche di lato, fino alla base e ai testicoli, ma lui stava per venire e la sua mano diventò dura e forte, mi trattenne la testa mentre lo tenevo tutto in bocca e in bocca mi venne, schizzandomi fino in gola e costringendomi a continuare a succhiare per non restare soffocato, anzi soffocata: che senso aveva che continuassi a sentirmi maschio, dopo che gli avevo fatto quel pompino magistrale? Restai con il suo cazzo in bocca anche dopo che era venuto, mi si ammosciò tra le labbra. Lui lo tirò via dopo che gli avevo leccato anche l’ultima goccia. Mi prese i capelli per la nuca, mi guardò compiaciuto e mi disse solo una parola: “Troia”.
Poi però non volle più vedermi. Era terrorizzato dal pensiero di essere gay, si fidanzò con una ragazza bellissima e sparì. Soffrii tantissimo. Lasciai la mia casa per andare all’Università, in una città lontana dalla mia. Abitavo da solo, anzi da sola e spesso mi travestivo e mi toccavo sotto le mutandine di pizzo, macchiando il reggiseno con i miei schizzi lunghi quanto la mia eccitazione. Eppure, mi dicevo, io non sono omosessuale: non trovavo nulla di strano, infatti, nel provare attrazione verso altri ragazzi. Soffrivo come un cane, per tenermi dentro quel che provavo: io mi sentivo una donna, volevo parlare, muovermi, pensare, godere come una donna. Ma sentivo di dover resistere a me stesso e ai miei impulsi, che talvolta divenivano irrefrenabili. Dovevo. Per l’occhio del mondo, per la mia famiglia, che non avrebbe capito, per me stesso, che in fondo pensavo a una vita “normale”. Lo tentai, un rapporto normale, con una ragazza dolcissima: ma fui sfortunato. A lei piacevano le donne ed era venuta con me per questo. Ci lasciammo appena lo capii.
L’estate dopo il primo anno di Università andai in un villaggio turistico, a lavorare come cameriere, per cercare di dimenticare. Conobbi un ragazzo spagnolo. Un tipo esuberante, una specie di animatore. Organizzò una festa in maschera e decise che io mi sarei dovuto vestire da donna. Aveva capito, forse. Accettai la sfida. Mi feci la messa in piega e la ceretta, mi rasai e mi cosparsi di crema depilatoria e idratante tutto il corpo, mi truccai da strafiga, misi la minigonna, le calze autoreggenti e i tacchi a spillo, una camicia che lasciai aperta fino a metà seno, il reggipetto a balconcino, che mi comprimeva le tette facendole sembrare enormi. Di maschile misi solo il giubbotto di pelle, che mi dava un’aria ancora più figa. Dopo che mi travestii nessuno, nemmeno lui mi riconobbe: le tette non avevo bisogno di gonfiarmele, il reggiseno mi stava persino stretto, la gonna svolazzante e i tacchi a spillo mi davano tanto l’aria di puttanella. Mi misi una mascherina, perché il travestimento era obbligatorio, mi dissero: nessuno aveva capito che io ero già in maschera. Mi sentivo occhi addosso da tutte le parti: poteva essere che nessuno avesse capito chi ero? Il primo che ci provò fu un attempato signore sui cinquanta, che era lì con moglie e figli: al primo lento mi invitò a ballare, mi piazzò una mano sul culo e io gli diedi una mezza ginocchiata. Sapevo bene dove colpire, si scusò e si tirò indietro. Ero determinata, però, a prendermi la mia rivincita sull’animatore: Pablo, si chiamava. Cominciai a ballargli davanti, lo provocai apertamente. Provai il subdolo gioco della seduzione, lui abboccò, mi invitò a bere e dopo pochissimo ero già mezza brilla. Lui, il porco, approfittava per fare amicizia a modo suo e mentre mi chiedeva come mi chiamassi già mi accarezzava i fianchi e poi giù giù fino al culo. Gli dissi di chiamarmi con un nome strano, Alda, e lo lasciavo fare. La musica era assordante, ci sentivamo a malapena. Ad un tratto, a sorpresa, mi attirò a sé e mi schiaffò tutta la lingua in bocca. Fu un’umida sensazione di ribrezzo mista a piacere. Cercò di togliermi la mascherina, ma io la trattenni. Mi baciò ancora e cominciai a provarci gusto.
Andammo da lui, in un appartamento che era tutto un disordine. Mi scaraventò sul letto, si tolse pantaloni e mutande e me lo diede in bocca, senza pensarci due volte. Glielo succhiai con forza: l’aveva lungo, grosso, ricurvo. Chissà se sapeva usarlo bene. Cominciai però ad avere paura: cosa avrebbe fatto, non appena si sarebbe accorto che sotto sotto ero fatta come lui? Cercai di fermarmi, di dirgli qualcosa, ma lui mi tenne la bocca inchiodata sul suo arnese. “Ci sai fare, muchacha”, diceva guardandomi compiaciuto. Pensai di togliermi la maschera, ma ero terrorizzata. Pensai di farlo venire, così me la sarei cavata con poco, ma lui mi fermò per tempo, per impedirsi di eiaculare si schiacciò il glande tra pollice e indice, in una maniera da fare rabbrividire e poi mi spinse all’indietro, a gambe larghe, sul letto. Voleva leccarmi la fica! Ma io non ce l’avevo… Dovevo fermarlo. “No – gli dissi – ho le mie cose… le mestruazioni”. Mi guardò perplesso. Adesso che mi sentiva parlare per la prima volta senza l’ingombrante sottofondo musicale, forse gli stava affiorando qualche dubbio. “Via, su – disse ancora – togliti questa maschera… Non serve più…”. “No, scusami, sai, ma non mi sento pronta…”.
Mi alzai di scatto e cercai di raggiungere l’uscita. Mi fu addosso in un battibaleno, mi afferrò alla cintola, mi strappò la maschera.
Ci guardammo in silenzio, perlomeno per un interminabile minuto. La sua presa si allentò, sembrava come ipnotizzato. “Scusa”, gli dissi mentre lui mi lasciava andare. Aveva capito. Mi sentii sprofondare sotto terra per la vergogna. Andai verso la porta, la aprii. Mi sentii afferrare di nuovo alle spalle, in maniera forte, violenta. Mi girò verso di sé, mi guardò il decollete, la camicia aperta che faceva vedere le mie tette sode. “Eppure sei in tutto uguale… a una donna”. Infilò una mano sotto la gonna, trovò quel che non poteva non trovare, mezzo ritto per di più. Ci giocò un pochino, poi mi attirò di nuovo a sé, mi baciò sulle guance, ma era come se le nostre bocche fossero calamitate tra di loro, la sua lingua si allacciò alla mia e baciandoci precipitammo sul letto. Mi spogliò, lasciandomi solo le autoreggenti, mi mise a pancia sotto e cominciò a leccarmi il buco del culo. Io alzavo i glutei, li allargavo il più possibile. Cominciò a mordermi proprio le natiche, quasi facendomi male. Poi sentii qualcosa di caldo e di duro affacciarsi sull’uscio del mio sfinterino vergine. Avevo sempre temuto la sodomia: mi terrorizzava il dolore, il possesso da parte di un altro uomo, la sottomissione. “Tranquilla, non ti faccio niente”, mugolò. Ma cominciò a pressare. La saliva non era un buon lubrificante, perlomeno non il migliore. Mi mise due dita per allargarmi l’ano. “Mi fai male”, lo implorai stando con la faccia pressata su un cuscino. Cominciava a farsi strada, in me, il desiderio di essere penetrata. Le sue mani forti mi presero per i fianchi torniti. Diede un primo violento colpo e mi sentii sfondare. Ne diede un altro: per quanto mi allargassi a dismisura, non riuscivo a prenderlo senza soffrire maledettamente. Mi sollevò nella posizione della pecorina e cominciò a pompare vigorosamente. Ad ogni colpo lo sentivo sempre più dentro. “Mi fai male”, urlavo mordendo il cuscino. Sculettavo per aiutarlo a entrare e per farmi meno male. Mi teneva per i fianchi così forte che non sapevo dove sentissi più dolore. Un altro colpo. Lo sentii dentro. Un altro e un altro, un altro ancora. Mi sfondò piano piano, fino a quando non me lo cacciò tutto dentro. A quel punto iniziò a muoversi dentro di me e io con lui.
Sentì arrivare l’orgasmo, decise di non venirmi dentro: lo tirò fuori, mi girò prendendomi per i capelli e mi sborrò in faccia, in bocca, sulle tette.
Io, intanto, mi ero preso in mano il mio cosino. Nel vedermi masturbare, si intenerì: si piegò sul mio pube e me lo prese in bocca. Venni all’istante.
Mentre si ripuliva, mi sorrise: “E’ stato come succhiare un grosso clitoride”, disse. Sì, l’avevo piccolino, ma a me bastava così. Anzi era fin troppo grosso, per me che tra le gambe avrei preferito tenerci una vagina.
L’indomani mattina Pablo mi convocò nel suo ufficio. Ero di nuovo vestito da uomo e mi vergognavo ad andare da lui. Veramente mi sarei vergognato comunque. Senza alzare gli occhi, mi consegnò un foglio. Gli diedi una sbirciata. Era una lettera di licenziamento. Trasalii: “Ma come!”, protestai. “Mi
dispiace – disse con aria seria – non posso più tenerti qui”. Bollivo di rabbia, però in fondo lo capivo. Anzi, per me era molto meglio andar via. Girai le spalle e come un cane bastonato mi avviai verso l’uscita.
“Aspetta”, disse con voce perentoria. Tornai sui miei passi. “Ho un’altra lettera per te”. Demoralizzato, diedi un’occhiata a quel foglio di carta: era una lettera di assunzione per una cameriera di nome Alda. Sorrise. Io ancora non avevo capito.
“Non posso tenerti qui vestita in quel modo – disse –. Tu non sei un maschio. Da oggi cambi nome e vestiti. E puoi restare quanto vuoi”.
FINE