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L’appendicite

è trascorso un mese dal giorno in cui sono stata dimessa dall’ospedale per l’operazione di appendicite.
Oggi è sabato, giorno di riposo, finalmente posso occupare parte del tempo libero per fare shopping in centro. A piedi passeggio per le vie del centro dando qualche occhiata alle vetrine dei negozi. è periodo di saldi e spero di fare qualche buon acquisto.
Noto con piacere che, malgrado i miei trentatre anni, gli uomini mi guardano ancora con molto interesse. Sbirciano allupati le mie curve che si affacciano dalla mia camicetta attillata e dalla gonna corta sopra il ginocchio.
Porto una terza abbondante e sono sempre stata fiera del mio seno eretto e del mio culo alto e rotondo.
Sto dinanzi il negozio di intimo, intenta a rimirare i capi di lingeria esposti in vetrina, quando sento pronunciare il mio nome. Mi giro e dietro di me vedo un ragazzo giovane.
– Non ti ricordi di me?
Imbarazzata lascio trascorre alcuni secondi prima di rispondere.
– Sì, certo che mi ricordo, ci siamo incontrati in ospedale, vero?
– Già. è successo un mese fa, abbiamo chiaccerato a lungo dopo che sono stato operato, poi non ti ho più visto.
– Come stai? Tutto bene?
– Sì… certo… dopo la convalescenza ho preparato l’esame di maturità senza troppe complicazioni.
– Ah! E sei stato promosso?
– Beh! .. è ancora presto per dirlo, lunedì dovrò sostenere le prove orali, solo allora saprò se sono maturo.
Rispetto a quando l’ho conosciuto sembra più disinvolto e sfacciato.
Non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo dalla scollatura della mia camicetta parzialmente sbottonata.
è vestito casual: un paio di jeans e ai piedi calza un paio di mocassini. La maglietta nera, aderente al torace, disegna i pettorali sviluppati. Anche il colore della pelle appare più scuro, forse a causa dell’abbronzatura.
– Beh! Allora ti saluto – dico.
– Non mi fai gli auguri?
– Sì certo… In bocca al lupo.
– Crepi!
Sembra che voglia dirmi qualcos’altro, tentenna, poi mi fa
– Senti non voglio essere invadente, ma se ti và puoi chiamarmi qualche volta. E mi da il suo numero di cellulare. Me lo scrivo su un foglietto di carta e senza dire una parola entro nel negozio. Vedo la sua immagine riflessa sul vetro della porta d’ingresso. Se ne sta fermo, dietro di me, ed osserva la mia figura.

è domenica pomeriggio. Il sole è cocente. Distesa sul lettino prendisole sto ad abbronzarmi sul terrazzo del mio appartamento. Lascio cadere il libro che sto leggendo e penso che ho voglia di un diversivo.
Mi alzo e vado a cercare nella borsa dove ho riposto il foglietto con quel numero di telefono. Cerco di ricordarmi il suo nome… Ah si Sandro!
Senza pensarci troppo afferro la cornetta del telefono e digito il numero sulla tastiera. Dopo una serie di squilli un voce maschile risponde all’altro capo del filo.
– Sandro?
– Si, sono io. Chi parla?
– Ciao! Sono Marisa. Ci siamo incontrati sabato, volevo sapere com’è andato l’esame.
– Ah! Sei tu… l’esame è andato bene. Anzi! Ho fatto un figurone, pensa che ho ricevuto i complimenti dei commissari.
– Sono contenta per te. Allora questa sera andrai a festeggiare con gli amici o con la tua ragazza.
Non risponde immediatamente, lascia trascorrere alcuni secondi poi riprende:
– No. Questa sera pensavo di rimanere in casa a guardare la tivù.
– Allora sai cosa faccio? T’invito io, sempre che non ti vergogni ad uscire con una donna che ha quindici anni più di te.
– Magari! Dici davvero? Non è uno scherzo, vero?
– No, dico sul serio. Ti sta bene se ci vediamo alle nove e mezzo in Piazza Plebiscito? Al bar Luxor.
– Sì certo.
– Bene, allora siamo d’accordo. Ciao! E… ancora felicitazioni per la maturità.
Ripongo la cornetta del telefono soddisfatta e guardo i miei capezzoli che premono turgidi contro il tessuto del bikini.

Sandro, ha preso posto a un tavolino del bar Centrale. Dinanzi a lui c’è una coppa da gelato: è vuota.
– Scusa il ritardo, ma è stato difficile trovare un posto per parcheggiare l’auto.
– Non importa, nel frattempo ho consumato un gelato. Posso ordinare qualcosa per te?
– Sì, un’aranciata amara, grazie!
Ad un cenno di Sandro si avvicina il cameriere e prende l’ordinazione.
– Complimenti! Sei molto elegante.
– Ti ringrazio, vesto in maniera sportiva quando esco la sera.
In verità non è per niente vero. Ho trascorso l’intero pomeriggio dinanzi lo specchio a provare camicie e gonne di ogni tipo, infine la scelta è caduta su una maglietta di seta trasparente e dei pantaloni neri con grandi tasche. Lui indossa un paio di jeans e una Lacoste gialla.
– Beh! . Non mi racconti come è andato l’esame?
– Te l’ho detto, è andato bene, meglio di così non poteva andare.
– Allora festeggiamo! Perché non andiamo a Ostia? Lì, c’è un po’ di vita, qui è un mortorio!
– Lo farei volentieri, ma non ho né l’auto né la patente.
– Che importa. L’ho io la macchina, dai andiamo.
Lasciamo il tavolo e, dopo che ha pagato le consumazioni, ci dirigiamo verso l’auto che ho parcheggiato poco distante.
La serata è calda, l’umidità soffocante. Per fortuna la mia auto è dotata d’impianto di climatizzazione, così effettuiamo il viaggio verso Ostia senza scioglierci in un bagno di sudore.
Trascorriamo la serata in un locale con piano bar. Verso le due mi faccio più audace.
– Senti… perché non concludiamo la serata a casa mia? Qui c’è troppo casino, ti offro qualcosa da bere, ascoltiamo un po’ di musica, poi ti riaccompagno a casa, ti va?
La mia proposta non lo trova impreparato, ma riesce a pronunciare un semplice:
– Sì.

Sulla via del ritorno ci scambiamo solo poche parole. La musica dell’autoradio riempie il silenzio che accompagna il nostro rientro.
– Accomodati sul divano, vado un attimo in bagno e sono da te – dico appena varcata la soglia di casa.
Le mie intenzioni dovrebbero essergli chiare. Per tutta la sera l’ho circuito assecondandolo in tutto, anche mentre ballavamo e mi stringeva le natiche.
Quando torno nella stanza, dopo essermi risistemata, Sandro ha acceso la tivù e guarda un film.
– Posso offrirti qualcosa da bere.
– Sì, una Coca, grazie.
Presi dal frigorifero due lattine di Coca Cola e dalla credenza due bicchieri.
Le appoggiai sul tavolo che sta dinanzi il divano.
– Cosa c’è di bello in tivù?
– Un vecchio film francese, di quelli che annoiano.
– E tu sei venuto fino qui per vedere un film francese?
La mia domanda, così esplicita da non essere fraintesa, lo lasciò titubante.
– Vieni qua, avvicinati – dissi.
Timoroso, ma non troppo, si accostò verso di me. Infilai la mano fra le sue cosce e gli accarezzai l’inguine.
– Ho voglia di fare all’amore con te – gli sussurrai ad un orecchio.
Lui girò il capo, prese il mio viso fra le mani e con l’irruenza dei suoi diciotto anni premette le labbra sulle mie.
La sua mano, tutt’altro che incerta, s’insinuò nella mia canotta di cotone fino a stringere i capezzoli.
– Piano… piano… Così mi fai male.
– Scusa non volevo – mi fece, dopo avere ritratto la mano.
Mi alzai in piedi e mi posizionai davanti a lui. Sollevai la canotta e mi liberai dei pantaloni che lasciai cadere in terra dinanzi il divano. Restai nuda con solo le mutandine addosso.
– Vieni qua.
Sandro si alzò e si mise in piedi di fronte a me. Con le dita feci risalire la Lacoste sopra il capo, sfilandogliela. Il petto, nonostante la giovane età, è villoso. Sull’addome, a destra, è ben visibile il segno della ferita chirurgica ormai cicatrizzata, molto simile alla mia. Slacciai la cinghia dei pantaloni e li feci scendere fino a scoprire gli slip.
Le dimensioni dell’uccello, nascosto sotto il tessuto, non mi lasciavano dubbi sul suo stato di eccitazione. M’inginocchiai ai suoi piedi e con le mani mi aggrappai agli slip che feci scendere fino sulle cosce.
L’uccello, liberato dall’involucro che lo teneva ingabbiato, apparve imponente e pulsante.
I condotti delle vene che sovrastavano in più punti la superficie dell’uccello erano ingrossati e disegnavano tanti piccoli condotti.
Afferrai il membro con le dita e mi preparai a scappellarlo. Lo feci lentamente, scoprendo poco per volta la cappella purpurea. Posai la lingua sui testicoli ed iniziai a leccarli, uno dopo l’altro, riempiendomi la bocca di lunghi peli. Intanto, con la mano, continuavo a lavorargli l’uccello, masturbandolo, lentamente.
I testicoli si erano nel frattempo induriti, ne introdussi uno fra le labbra e lo succhiai. Sandro ebbe un sussulto.
Risalii con la lingua l’uccello fino a inglobare la cappella fra le labbra.
I movimenti delle anche accompagnavano l’uccello in profondità nella mia bocca, senza troppo riguardo. Strinsi l’uccello con la mano impedendo che scivolasse in avanti a togliermi il respiro. Con la punta della lingua mi soffermai a leccargli il frenulo. Sandro si ritrasse, allarmato. Tornai a succhiargli la cappella. Lui sembrava rilassarsi e godere della pressione che le labbra esercitano sulla superficie. Le mani che teneva composte ai fianchi, mi afferravano il capo da dietro e accompagnavano i movimenti della mia bocca. Adoro succhiare, mi fa sentire padrona, ma ho tanta voglia di essere penetrata, al più presto.
– Coricati sul tappeto, dai…
Sandro non se lo lasciò ripetere due volte, si mise supino sul tappeto nell’attesa che mi decidessi a proseguire nell’azione. L’osservai dall’alto.
Il suo petto si espandeva rapidamente seguendo il ritmo del respiro.
Il cazzo stava ai miei piedi, ritto, turgido, oggetto di desiderio, ma sarei stata io a decidere quando e come farmi penetrare. Restai immobile sopra di lui e lo guardai dall’alto in basso. Mi liberai delle mutandine e lasciai che gustasse lo spettacolo della mia figa e del folto cespuglio del mio pube.
Rimasi ferma con le gambe leggermente divaricate mostrandogli la fenditura delle grandi labbra rosee, poi iniziai a toccarmi. Intinsi le dita nella bocca bagnandole di saliva e iniziai a strofinarmi il clitoride. Lui allungò le mani sulle mie cosce, quasi a volere raggiungere il prezioso tesoro che ho fra le cosce.
Ero in una condizione di completo dominio e la stavo esercitando su un ragazzo, questo accrebbe la mia eccitazione e la voglia di essere penetrata al più presto.
Piegai le ginocchia e appoggiai le natiche sulle sue cosce. Sollevai il bacino, afferrai l’uccello e lo infilai nella figa. Quando mi penetrò un brivido di
piacere percorse il mio corpo ed emisi una invocazione di soddisfazione.
– Sì. Chiavami! … Chiavami! Con tutta la forza che hai. Fammi godere… fammi godere.
Seduta su di lui strusciai i glutei sulle anche in modo che l’uccello penetrasse in profondità fino a sfondarmi l’utero. Accarezzai il suo petto dilungandomi a pizzicargli i capezzoli. Lui mi lasciò fare, impacciato. Con nessun altro uomo mi era capitato di padroneggiare il rapporto come stavo facendo con lui e questo diede più gusto al nostro rapporto.
– Dillo che ti piace fare l’amore con me –
Dissi, mentre tutta sudata trascinavo l’uccello nel profondo della figa.
– Dillo dai! … dillooo!

Il suo viso improvvisamente cambiò di espressione, abbandonò l’aria timorosa che lo aveva contraddistinto per tutta la sera. Sfilò l’uccello dalla figa e mi allontanò da lui. Con le possenti braccia mi trascinò sul tappeto, mi mise carponi e si pose dietro di me. Sorpresa dall’improvviso cambiamento di personalità lo lasciai fare accondiscendendo alle sue pretese.
Inginocchiata con il palmo delle mani appoggiate sul tappeto stavo nell’attesa che infilasse l’uccello nella figa. So bene quanto piaccia agli uomini la posizione alla pecorina.
Lui bagnò le dita nella vagina e le avvicinò all’orifizio anale inumidendolo con le mie secrezioni. Premette poi con forza il dito medio sullo sfintere e mi penetrò fino alla seconda falange. Sbalordita mi scostai in avanti, gridando, e lasciandomi cadere su un fianco.
Il dito si sfilò. Mi girai verso di lui stizzita e infuriata.
– Ma che fai? Sei pazzo! Nel culo non voglio! Non l’ho mai fatto e non ho intenzione di cominciare proprio ora. è una cosa che mi fa schifo! Hai capito? è contronatura e non ti permetterò di farlo…
Un manrovescio mi colpì in pieno volto provocandomi la fuoriuscita di sangue dal naso.
– Ma che ti prende? Sei impazzito? – gridai, mentre con le dita cercavo di tamponare il rivolo di sangue che mi usciva dal naso.
Tentai di alzarmi, ma un pugno mi colpì allo stomaco levandomi il fiato.
Crollai per terra, intontita. Sandro mi sollevò l’addome e mi rimise carponi. Non avevo più la forza di reagire.
Sentivo che mi afferrava le natiche e me le allargava, poi percepii il suo glande che si appoggiava sullo sfintere e cominciava a premere provocandomi le prime fitte di dolore. Sono stretta e in più stringevo convulsamente il muscolo, cercando di non farlo entrare.
– Adesso te lo infilo nel culo troia – Mormorò lui spietato. – Te lo infilo dentro adagio adagio, per farti soffrire di più. Voglio sentirti gridare e implorare pietà, e più ti stringi e peggio per te sarà. Non avrò pietà, posso stare qui tutta la sera a spingere e alla fine cederai… Oh se cederai! E ti romperò questo bellissimo tuo culo!
Mi misi a singhiozzare per la paura e il terrore di ciò che mi stava succedendo. Non l’avevo mai voluto prendere nel sedere anche se me l’avevano chiesto in molti, perchè l’avevo sempre ritenuto una cosa schifosa e contronatura e inoltre a quanto si dice molto dolorosa, e le fitte che mi provenivano dall’ano ne erano la conferma.
Intanto, terrorizzata, stringevo il muscolo più che potevo e lui a spingere, a spingere, a spingere in silenzio e con una calma tremenda.
A un certo punto sentii che a poco a poco qualcosa stava cedendo. Il dolore si fece più forte e cominciai a gemere forte. Percepivo che stava entrando, lentamente, ma stava entrando! Dio che dolore pazzesco!
Mi diede un pizzicotto cattivo in un fianco che mi fece trasalire e questo mi fù fatale. Il glande, sotto la spinta possente si incuneò nel mio sfintere allargandolo violentemente. Gettai un grido altissimo, quasi un ruggito da belva ferita e cercai di scappar via, ma lui mi trattenne, con presa ferrea, per i fianchi. Spinse ancora e il glande entrò quasi tutto.
Ora urlavo come una pazza, mi agitavo come una marionetta incontrollata cercando di scrollarmelo di dosso, mentre le lacrime mi uscivano incontrollate e copiose dagli occhi bagnandomi le guance.
– Ahiiiiiiiiiii! …….. Ti prego fermati, mi stai uccidendo! … Esci, ti scongiuro esci, mi stai facendo un male atroce! Ti pr… AAAGHHH!
Con una spinta violenta si era infilato ancora più dentro le mie viscere e continuava ad avanzare ancora con una lentezza atroce che mi procurava dolori indicibili in tutto il corpo. Sentivo i crampi che mi attanagliavano le braccia, le cosce e il basso ventre. Volevo che tutto finisse presto e speravo di svenire per sottrarmi a quello schifoso martirio.
Ma non svenni ahimè. Dovetti sopportare il supplizio di sentirlo entrare in me lentamente fino in fondo. Ma quanto cazzo ce l’aveva lungo! Me lo sentivo arrivare fino in gola e mi vennero dei conati di vomito che mi lasciarono stremata.
Ad un tratto si fermò. Era entrato tutto, fino ai testicoli che sentivo sbattere sulla mia figa. Mi sentivo il retto in fiamme e gonfio fino all’inverosimile, l’ano pulsava come impazzito e qualcosa di viscido mi colava lungo una coscia.
Oddio! Mi ha spaccata. Sicuramente lo sfintere ha ceduto e sto perdendo sangue. Ebbi paura per l’emorragia e mi misi a tremare in tutto il corpo come una foglia sbattuta dal vento.
Dopo un tempo che a me parve interminabile, cominciò a muoversi, iniziando a scoparmi nel culo con ritmo lento, ma regolare. Il dolore, se possibile, aumentò a livelli insopportabili. Mi ronzavano le orecchie, mi martellavano le tempie e in lontananza, attutite, mi arrivavano delle urla.
Chi urlava? Chi stava gridando? …
… ERO IO! … , realizzai ad un tratto, erano le mie grida che sentivo, le mie urla da bestia ferita che rimbombavano nella stanza e nelle mie orecchie.
Implacabile, continuò a fottermi nel culo per un tempo interminabile e lunghissimo. Si muoveva nel mio intestino a ritmi regolari. Terrorizzata non reagivo, non ne avevo più le forze! . Avevo paura.
– Dillo ora che ti piace. Troia! Ti piace sentirlo nel culo? Lo senti come ti apre e ti spacca questo tuo culetto stretto?
Quello che sentivo era solo dolore. Dolore e schifo, e umiliazione, e ancora dolore e solo dolore. Le lacrime scendevano copiose dai miei occhi mescolandosi al sangue che fuoriesciva dalle narici.
Le sue mani erano aggrappate alle ossa iliache del mio bacino su cui faceva forza per tenermi ancorata a lui. L’uccello, male lubrificato, si muoveva a fatica nello sfintere provocandomi sofferenze atroci. Avvertivo disgusto, nausea, vomito. Avevo un unico desiderio: che il supplizio terminasse al più presto.
– Era questo che cercavi, no? Volevi farti sbattere? E io sono qui per questo, le conosco bene le troie della tua età.
Mi sodomizzò per non so quanto tempo. Durò a lungo, molto a lungo e per tutto il tempo non feci che lamentarmi, singhiozzare, gridare e urlargli di smetterla.
Dopo un tempo che mi parve interminabile sentii finalmente il ritmo della sua azione farsi incalzante, stringeva con maggior veemenza i miei fianchi attirandomi a sé. Una spinta più forte seguita dall’ansimare della sua bocca mi preannunciò che l’agonia stava per finire. Sentii che lo introduceva fino in fondo andando a raschiare il fondo del mio retto martoriato. Una lunga pausa, poi sentii il suo sperma fiottarmi dentro bollente, ustionandomi le ferite che mi aveva aperto dentro. Venne a lungo, adagiato sulla mia schiena e mugolando come impazzito. Un’altra pausa precedette lo sfilarsi dell’uccello.
Serrai lo sfintere e un bruciore intenso mi prese l’ano, mi accasciai sul pavimento umiliata e piansi.
– Dai, non fare la vittima. Cosa ti aspettavi, l’amore? è stato bello, invece, con le mie compagne di scuola è un gioco che facciamo spesso e a loro piace essere inculate da me.

Il trillo di un telefono interruppe il suo discorso. Sandro si scostò da me, prese dalle tasche dei pantaloni il cellulare e rispose alla chiamata.
– Sì? … lo so che è tardi mamma, ma questa è la mia serata di festa per la promozione, mica vorrai proibirmi di festeggiare? … E dove vuoi che sia… con gli amici, fra poco sono a casa non ti preoccupare. Ciao! … Si, si Ciao!
Ripose il cellulare e mi guardò:
– Beh! … è ora che tolga il disturbo… Non ti chiedo di accompagnarmi, la strada la conosco. La notte è fresca e una passeggiata mi farà bene.
Si rivestì senza fretta incurante della mia presenza. Rattrappita su me stessa, ancora tremante e scossa dai singhiozzi, restai adagiata sul tappeto nell’attesa che si allontanasse. Prima di congedarsi spense il televisore azionando il telecomando che poi gettò sul divano.
– Ciao!
La porta dell’appartamento si chiuse dietro di lui, ancora una volta mi ritrovai sola, confusa e mortificata.
Troia? Forse, ma l’unico mio errore è la solitudine. FINE

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