Giunsi da lei alle quattro del pomeriggio. Ricordo con certezza l’ora perché attesi fuori dal portone dieci minuti buoni e solo alle quattro in punto suonai il campanello. Paola aveva un golfino rosa, di lana, a trecce, una gonna corta, nera. I lievi contorni del ginocchio e delle gambe. L’ombra del seno florido, nonostante la sua età. I capelli lunghi e nerissimi. Gli occhi scuri, ridenti, vispi, ardenti. La bocca, con quel labbro inferiore sensuale e carnoso sotto il labbro superiore più sottile. Ed un nasino leggero e provocante. Mi venne incontro gratificandomi di un sorriso gioviale. Quindi salutai sua madre, una donna stanca, molto più grande di sua figlia; molto più grande di sé stessa. Le diedi il regalo che avevo portato da Londra, e cominciai a raccontarle qualcosa del mio viaggio, dei miei studi, del lavoro in Inghilterra.
Eravamo tutti e tre seduti intorno ad un tavolo dimesso, in una stanza dimessa. Ma i colori di Paola, la sua voce, i suoi sguardi: sembrava non ci fosse mai stato un ambiente più luminoso e allegro e attraente. La nonna era ricoverata in clinica e sarei andato con loro a salutarla. La madre di Paola si alzò per indossare l’abito col quale sarebbe uscita.
Appena fummo soli nella stanza, il bisogno di un contatto esplose. La sua mano fu in una frazione di secondo tra le mie, sul mio ginocchio, la mia mano fra le sue, sul suo viso, tra i suoi capelli. Sua madre la chiamò, ricordandole di prendere qualcosa dalla cucina. L’accompagnai e ci abbracciammo per un attimo. Perché non sapevamo, ma il sangue fluiva dentro noi e come un magnete ci attraeva l’un verso l’altra.
Uscimmo di casa. Prendemmo l’auto; la loro: io non l’avevo ancora. Paola sedette dietro, io davanti. Per il breve tratto che ci separava dalla clinica mi accarezzò la nuca ed i capelli. Sua nonna mi accolse con malcelato disappunto. Non le stava bene che la nipote frequentasse uno dodici anni più grande. Già a stento tollerava che a soli 14 anni, lei avesse il ragazzo, figuriamoci il ragazzo ed un amico. Cose dell’altro mondo!
Data la situazione, ritenemmo opportuno uscire dalla stanza e ci appartammo nel corridoio della clinica, dove raccontai a Paola delle mie avventure sessuali a Londra. Era l’unica a cui potessi parlare di me, della mia ragazza, delle mie avventure, di lei, di tutto. Mi sorrideva, anche se, diceva, era gelosa, non concepiva che io avessi avuto un’altra; pure non riusciva ad accusarmi, ad avercela con me.
Andammo al bar, prese una coca e una bomba alla crema. Io, fine, un’acqua tonica. Volevo comprare qualcosa per sua mamma, ma lei non me lo permise. Dovevo andare via. Andai a salutare sua nonna e sua mamma; incrociammo anche una cugina, mentre mi accompagnava all’uscita della clinica, una vetrata che dava su un giardino alberato. Per salutarci ci abbracciammo forte. Due volte. I bacetti di arrivederci erano strategicamente tendenti verso le bocche e solo all’ultimo momento scostai la testa di quel tanto che bastò ad evitare il contatto delle labbra. Mi allontanai felice, mentre Paola mi seguiva con lo sguardo.
* * *
Passai a prenderla alla fermata dell’autobus. Uno dei due autobus che prendeva per andare a scuola. Ci abbracciammo, ci tenemmo stretti stretti per dei secondi eterni. Anziché lasciarla proseguire con il mezzo che doveva condurla verso la scuola, prendemmo il tram che andava nel senso opposto. Sedette in braccio a me, e parlavamo fitto. Sentivo il profumo di ogni parola: il suo rossetto rosa. Un po’ di fard sulle gote lisce, e appena un tocco di ombretto sulle palpebre, per sentirsi più grande. Le sfiorai involontariamente il ginocchio nudo, e le chiesi scusa. “E di che! ? ” rispose ridendo, e afferr la mia mano posandola sulla sua gamba. Era fresca, come quella nostra mattina di settembre. Accostammo le bocche in un bacio, con le labbra chiuse, umide. Mi leccai le labbra e sentii il sapore del rossetto. La sua mano era nella mia, altri profumi, odori si mescolavano. Il tram raggiunse la nostra fermata. Scendemmo tenendoci per mano. La piazza pullulava di auto vuote, di semafori impazziti. Le strisce pedonali, un angolo, un portone. Scendemmo le buie scale ed aprii la pesante porta della sala. Le grandi pale del ventilatore giravano lentamente soffiando sulla batteria. Il panno rosso pendeva un po’ dalla tastiera. Accesi l’aeratore, e spalancai la porta rossa dello studio di registrazione. Paola era accanto a me, in piedi, la mia mano sulla sua spalla più lontana, il suo braccio intorno ai miei fianchi. Le mostrai approssimativamente il funzionamento di quelle apparecchiature elettroniche, il computer, i campionatori, il mixer, la tastiera, gli effetti. Mi chiese di cantarle qualcosa. Presi il microfono, liberai la chitarra dalla custodia ed allacciai i cavi, con un po’ di effetti, di riverbero sulla voce. Le cantai “Lullaby”, una canzone in inglese che avevo composto proprio per lei. L’arpeggio sulla chitarra fu al mio solito: disastroso. Ma la voce, ben filtrata, uscì calda e suadente dagli amplificatori. Posai la chitarra, spensi il microfono ed accesi il registratore 8 piste.
Misi su una bobina con le mie canzoni in italiano, livellai i volumi e gli effetti delle varie tracce, e sedetti sul divano accanto a Paola. Ci abbracciammo subito, e lei cominciò a baciarmi sul viso, dappertutto, impiastricciandomi di rossetto, senza darmi respiro. L’aveva detto che era un torello scatenato in quei momenti. Piano piano mi piegai all’indietro trascinandola con me. Si sdraiò sul mio corpo. Continuavamo a baciarci senza tregua, senza respiro. La lingua saettava, nella mia bocca, nella sua bocca. Le mani percorrevano tutto il corpo, il mio corpo, il suo corpo. Sulla pelle nuda delle gambe, sotto la gonna. Sulla mia camicia, sotto la mia camicia. Un furore dolce e selvaggio guidava la nostra ricerca. La invitai, tra un bacio e l’altro, ad alzarsi. Spensi il neon ed accesi la lampada a muro, molto più soft. Sollevò le braccia e le sfilai il maglione. Il reggiseno bianco conteneva a stento il seno rigoglioso. La accarezzai sotto le ascelle, profumate, umide. La strinsi forte a me. Continuammo a baciarci mentre piano le sfilavo la gonna, che venne giù. Mi sbottonò la camicia ed io intanto tiravo giù i calzoni. Mi inginocchiai e cominciai a baciarla, a leccarle la pelle delle gambe, delle cosce, mentre lei teneva le mani tra i miei capelli, quasi a guidarmi in quel percorso, per non farmi rinunciare ad un solo poro della sua pelle. Le mie mani stavano intanto sfilando piano le mutandine, ed in breve giunsi con la bocca al sesso umido di Paola, tra i suoi peli, tra i suoi umori, aspri, profumati. Mi alzai, le slacciai il reggiseno. Cercai con la mano di afferrare e stringere quella carne morbida che era protesa verso me. La baciai, poi salii con le labbra alla sua bocca, ancora. La presi in braccio e la adagiai sul divano. Lei mi sfilò i boxer. Eravamo nudi con le scarpe. Le feci notare la circostanza e scoppiammo a ridere. Mi strinse forte, baciandomi con un sorriso, mentre le mia mani impazzite non avevano tregua, non avevano meta, scivolavano da un punto all’altro di quel corpo minuto e meraviglioso, carezzavano ogni angolo, ogni spigolo, ogni avvallamento, ogni rotondità di quel corpo che era mio come la sua mente, come i pensieri di Paola, come i sogni, come i segreti. E lei percorreva, con le mani, con le labbra, con la lingua la sua cieca idea di me che ero suo, senza limiti, aperto. Le bocche si incontrarono ancora e le nostre mani si placarono sui sessi eccitati, bagnati.
Posai il palmo aperto per contenere tutta la vulva, godendo del suo calore, della morbidezza dei soffici peli. La sua piccola mano avvolgeva la parte superiore del pene, e poi delicatamente prese a fare su e giù, scoprendo di volta in volta una porzione sempre maggiore del glande, che stava diventando violaceo. Insinuai un dito, lentamente, tra le labbra del suo sesso, ed un fiume di umori scivolò sulla mia mano. Sentii Paola deglutire. Abbandonai per un attimo la sua bocca, per scendere pi giù, all’ombelico e poi posare un bacio su quei peli neri, e penetrare con la lingua tra quelle labbra rosse che delicatamente allargai.
Effluvi di piacere raggiunsero le narici e poi la mia bocca. Cercai per quanto possibile di conquistare con la lingua il punto più profondo dei suoi abissi. Mi posò una mano sui capelli, e mi costrinse a riaccostare la mia bocca alla sua. Si abbandonò, allargando leggermente le gambe per permettermi di sdraiarmi su di lei. Avvicinandomi ancora di più a lei, sentivo il sangue pulsarmi nelle tempie, il cuore rotolare, rantolare nel petto. Il sesso incontrò il suo fiore aperto, la sua bocca vorace. Fui io a penetrarla o lei ad inghiottirmi? La fusione odorava di profumi voluttuosi, le lingue si rincorrevano, si attorcigliavano, una ritmata risacca di umori era il sound del nostro amplesso. Le sue mani, le unghie graffiavano, stritolavano la pelle sulla schiena; le mie seguivano i dolci pendii delle sue natiche, mentre un dito si avventurava all’improvviso a lambire il buchino dell’ano, che si contraeva, sussultava come la vagina, allo stesso ritmo, tenendo il tempo, e scrosci di mugolii filtravano dalle nostre bocche che si cercavano.
Su quello stretto divano, avviluppati, con le sue braccia e le sue gambe completamente avvolte intorno a me, ed il mio sesso prigioniero del suo, la testa affondata fra i suoi capelli, la lingua catturata dai suoi denti che succhiavo, ed i miei occhi succubi del suo sguardo acceso, e le orecchie rapite dai suoi lamenti, mentre andavo dentro e fuori dai suoi muscoli, dai suoi tendini, dai suoi nervi in preda alla follia, pure potevamo rotolare, io sotto e lei sopra. Ed allora sollevava il busto e mi offriva il suo seno superbo che non potevo fare a meno di afferrare, tormentare, torturare, divorare, mentre lei saltava inchiodata su di me, si contorceva infilzata dal mio dardo fremente, inarcava la schiena, lasciava andare indietro la testa ed i suoi capelli arrivavano a sfiorarle i glutei rotondi. Ed ancora si sdraiava su di me, col petto che strofinava sul mio i capezzoli neri e duri, finché non la portavo di nuovo sotto di me, e cominciavo a colpire, a muovermi con più veemenza quando sentivo che eravamo pronti, dopo i suoi mille orgasmi, al grande climax, all’urlo liberatorio, che arrivava infine mentre lei mi afferrava la nuca e mi strappava i capelli, e poi rantolava, mentre i corpi davano ancora gli ultimi sussulti.
Spossato, scivolavo a peso morto su di lei, col sesso ancora dentro lei. Sentivo le ultime contrazioni, ed il liquido sgorgare caldo nel suo corpo, ma non avevo la forza di uscire da lei, né di scostare la testa che era abbandonata tra i suoi capelli, accanto al suo viso, accanto ai suoi occhi chiusi; né sollevavo la mano dal suo seno. E lei continuava a stringermi a se, dentro se, a tenere le unghie profonde nella mia pelle.
* * *
Mi svegliai; quasi rinvenni da quel nirvana dolce, da quel deliquio di piacere nel quale ero precipitato. Da quando avevo goduto dentro di lei poteva essere passato un tempo indefinito. Secondi, ore, giorni. Il mio sesso sfatto, era scivolato sulla sua coscia. Mi misi su di un fianco e la guardai. Non ero mai stato tanto felice.
Avevo sempre sognato un’amica come Paola. Con lei c’era tutto, l’amicizia, l’amore, il sesso; la sincerità, la complicità, la comprensione; la gioia e il dolore. E non c’era nulla. Nessun impegno, nessun vincolo. Lei aveva la sua vita sentimentale e sessuale; io la mia. Un po’ di gelosia, certo, come forse tutti gli amici. Ma nessun obbligo, nessuna catena. Sapevamo che solo così potevamo vivere questa nostra incredibile storia, potevamo raccontarci tutto. Ed infatti sapevamo tutto l’uno dell’altra, e nessuno poteva conoscerci meglio di come ci conoscevamo. Fuori dalle convenzioni, forse; fuori dalle regole. Ma liberi e vivi, e questo era importante. Era la prima volta che facevamo l’amore. Era un momento giunto naturalmente, come tutto tra di noi. E ora Paola era accanto a me, nuda.
Dormiva, con la bocca leggermente aperta. Il petto si gonfiava al ritmo del respiro sereno; le dolci colline del seno, anche così, supina, erano splendide figure concave, culminanti in quel bruni piccoli fiori dei capezzoli. La curva dei fianchi, da una vita stretta scivolava sulle sode natiche, rotonde, mentre dal ventre piatto si scendeva, attraverso due solchi triangolari, alla folta peluria nera che celava l’oceano rosso e profumato del piacere. Paola aveva un sesso leggermente sporgente, più del normale, insomma. Arricciai con un dito quel boschetto arruffato di peli. Le gambe chiuse lasciavano uno spazio triangolare sotto la vulva, e poi la forma perfetta della coscia si affusolava fino al ginocchio, solido ma proporzionato. Le gambe erano dotate di polpacci muscolosi ma femminili, conquistati certo durante gli anni di danza classica. Le sfilai le scarpe.
Mi accorsi che il pene si era nuovamente eccitato mentre percorrevo lentamente quel corpo a mia disposizione. Cercando di non svegliarla, girai Paola su un fianco. Adesso potevo guardare lo spacco profondo delle natiche e due fossette poco più sopra, ai lati della spina dorsale. Le sollevai la gamba e accostai la punta del membro al sesso ancora bagnato. Con dolcezza, ma rapidamente le fui dentro di nuovo, e cominciai a muovermi. Emise un sospiro e mi venne dietro, seguendo il mio ritmo.
Intanto la mia mano le stava palpando il seno mentre la sua era scesa fra le cosce a stuzzicarsi il clitoride. Le passai l’altro braccio sotto il corpo e sostituii la sua mano fra i peli morbidi. Stava per avere un orgasmo quando mi fermai ed uscii da lei. Ma fu solo un attimo, perché subito dopo lei sentì ancora la mia verga rigida puntare contro lo stretto orifizio posteriore. Favorito dai suoi umori copiosi, il mio glande lubrificato non faticò troppo a penetrare quell’oscura tana di lussuria: con un colpo secco le fui dentro quasi completamente. Urlò di piacere e dolore, e avviluppò tra le cosce la mia mano che si era fatta più intraprendente e dal clitoride era ormai scivolata, sferrando un attacco alla vagina. Mentre andavo avanti e indietro, le mie dita accarezzarono le sue labbra umide, percorrendone tutto il perimetro, quindi una per volta penetrarono in tre nella vagina. Sottoposta alla doppia offensiva, Paola non resistette a lungo e venne copiosamente, ululando di piacere. Contemporaneamente raggiungevo anch’io l’orgasmo, eiaculando dentro di lei.
* * *
Si stese su di me, guardandomi con i suoi occhietti impertinenti. Voleva convincermi di essere stata scatenata, più di me. Stavo ribattendo che mentre lei dormiva, io… Si attaccò alla mia bocca e voleva ricominciare la lotta. Così ci amavamo. Era ora ormai di andare via, e l’aiutai a rivestirsi, con un piacere simile a quello provato spogliandola. Il bel seno rientrò nel reggiseno bianco, un ciuffo di peli rimase fuori dal bordo degli slip. La gonna cinse i suoi fianchi, lasciando scoperte le gambe e il golfino scivolò sulle sue braccia. La testa comparve un attimo prima che lei mi attirasse di nuovo a sé, per stringermi forte e poggiare il suo musino dolce sul mio petto ancora nudo. Mi rivestii in un attimo. Spensi la strumentazione elettronica, posai la bobina, terminata chissà quando, nella custodia e staccai l’aeratore.
Il sole adesso caldo di settembre ci spalancò le braccia quando fummo fuori. Sul tram mi fece ancora un po’ di coccole, finché giungemmo alla fermata. Eravamo un po’in anticipo ed entrammo in un bar. Sua madre era là dentro per caso, ma avemmo come l’impressione ci stesse aspettando. Non mostrò infatti alcuna sorpresa, anche se cominciò a minacciarci sottovoce istericamente. Troppo piccola per sognare, troppo piccola per subire psico-torture da carnefici inconsapevoli. Eppure, dio, che silenzio e che solitudine, adesso. FINE