Non saprò mai se ciò che accadde quella notte d’agosto, nella villa di mia cugina Nora, fu sogno o realtà. La Ragione, appellandosi al solo criterio a lei caro, l’idque plerumque accidit del lucido giurista, ovvero l’evidenza del normale succedersi di cause ed effetti, sostiene caparbia la tesi del sogno. Ma quei fili d’erba, che trovai tra i miei capelli il mattino seguente, ed il terriccio, che dai piedi saliva ad incrostarmi i polpacci come una strana infezione; i piccoli lividi che nei giorni seguenti dovetti nascondere agli occhi di mio marito perché non me ne domandasse spiegazione; ed infine, l’indolenzimento, dolce e tormentoso ad un tempo, che avvertivo alle parti intime e le tracce di morsicature ai seni e alle labbra, alle quali riuscivo ad attribuire una sola, inequivocabile origine, mi costringono a ribattere, con eguale caparbietà, che non si trattò affatto di un sogno.
Nora era andata a trascorrere l’estate nella sua casa di Sirmione, quell’anno e, non avendo altra compagnia che quella di un marito perennemente assorto nella contemplazione degli astri e di una figlia adolescente, impegnata a dimostrare al mondo la sua unicità e indipendenza dal modello materno riducendo al minimo la sua partecipazione alla vita domestica, mi aveva proposto di raggiungerla e di restare con lei finché avessi voluto.
Era passato quasi un anno dal mio matrimonio con Francesco, undici mesi durante i quali avevo avuto modo di conoscere mio marito meglio che in sette anni di fidanzamento: una prova dalla quale ero uscita sfinita, delusa e piena di dubbi. Già prima di sposarlo sapevo che importanza avesse per lui il lavoro nello studio di progettazione di mio padre. Francesco era uscito da architettura a 24 anni con il massimo dei voti e già due anni prima mio padre gli aveva proposto di collaborare con lui, non appena si fosse laureato. Avevamo anche avuto un litigio a questo proposito e, lo ammetto, ad esserne la causa ero stata io, con tutte le mie insicurezze e gelosie. Una parte di me temeva che sotto al dolce ragazzo dai sani principi che credevo di amare, si celasse un cinico arrivista, interessato soltanto ai soldi ed al successo che la mia famiglia poteva garantirgli. Mi sbagliavo e ancora adesso non mi perdono di essere stata tanto ingiusta verso di lui. Ma in quel momento, osservandoli, lui e mio padre, attraverso la porta socchiusa dello studio al primo piano, mi ero sentita, in qualche modo, esclusa ed avevo avuto paura. Era la premonizione della solitudine che avrei conosciuto di lì a qualche anno, la solitudine di una moglie il cui marito è troppo assorbito dal lavoro per curarsi di lei, ma il mio impulsivo cervello di ventiduenne aveva tradotto quella premonizione in sospetto, diffidenza, ostilità. Dopo quel litigio, io e Francesco avevamo fatto l’amore, fino in fondo per la prima volta e da allora la nostra relazione era filata liscia come l’olio. Anche troppo, liscia.
“Lo sai che non riesco proprio ad immaginarmi il tuo Francesco nell’atto di scoparti? “, mi aveva detto una volta Nora.
“Beh, se temi per la mia verginità, mettiti il cuore in pace: è irrimediabilmente perduta”, le avevo risposto, sforzandomi di apparire disinvolta. Ma, dentro di me, era stato come se Nora mi avesse inferto una stilettata. Era dunque così evidente? Francesco sembrava considerare il sesso come un accessorio secondario della nostra relazione; una variante vivace alle tenerezze che eravamo soliti scambiarci quando stavamo insieme. Non mi aveva mai colta di sorpresa, non mi aveva mai presa in modi, per così dire, inconsueti; se gli dicevo “no, amore, questa sera non mi va”, non insisteva e ritornava a parlarmi dell’ultimo libro che aveva letto. Sì, dovevo ammetterlo: per quanto piacere mi dessero le sue carezze e per quanto desiderassi i suoi baci, le volte che con lui avevo raggiunto l’orgasmo ancora riuscivo a contarle.
La casa di Nora era uno di quei luoghi capaci di ricreare attorno a chi vi si trova un’atmosfera da inizio secolo, con quella facciata bianca ricoperta d’edera e l’ampio salone di ricevimento che, attraverso la grande porta-finestra, si apriva sul giardino. Definire giardino il parco che, per diversi ettari, si estendeva sul retro della la villa, potrebbe apparire riduttivo da un punto di vista terminologico; eppure, “giardino” mi sembra la parola più adatta a quel luogo dove i cespugli di rampicanti si confondevano con i tronchi delle querce e dove le più diverse specie di fiori coloravano il prato e nascondevano il sentiero che portava al lago.
Trascorsi in quel giardino buona parte del mio soggiorno alla villa, a volte in compagnia di Nora, più spesso da sola, a leggere o, semplicemente, ad oziare. Mi piaceva la naturalezza di quel luogo, dove, quasi miracolosamente, nessuno aveva ancora pensato di aggiungere un tocco di modernità costruendo una piscina o un campo da tennis, o anche soltanto lastricando i viali interra battuta. Mi rilassava immergermi nelle acque caldissime del laghetto artificiale, in compagnia delle anatre e dei cigni o sdraiarmi nuda sull’erba a prendere il sole, senza pensare più a nulla. Diverse volte avevo declinato l’invito ad una gita nei dintorni, per restarmene sola in quel luogo di sogno.
E poi, nel giardino c’era la statua.
“Chi rappresenta quel bel ragazzo, Nora? “, avevo domandato a mia cugina, una volta che ce ne stavamo a prendere il sole nei pressi del laghetto e la statua sembrava osservarci di nascosto, tra i rami degli alberi, dalla radura dietro di essi.
“Endimione”, mi aveva risposto, “il bellissimo giovane figlio di Zeus, che fece innamorare addirittura la Luna”
Io avevo ribattuto, ridendo, che non poteva trattarsi di Endimione, perché sapevo bene che Zeus lo aveva condannato ad un sonno perenne al fine di preservarne la bellezza; e, a giudicare dal suo membro, quel giovane non sembrava per nulla addormentato.
“Sarà stato l’effetto della Luna, mia cara! “, aveva risposto Nora tagliando corto e facendomi capire che quel problema la interessava quanto un torneo di biliardo; e così non ne avevamo più parlato. Ma, dentro di me, quella statua che dopo di allora avevo soprannominato “Endimione risvegliato”, aveva continuato ad esercitare un fascino al quale non riuscivo a resistere, un’attrazione che mi costringeva a tornare, più volte al giorno, ad ammirarne le forme, sentendomene, mio malgrado, sempre più turbata. Era una statua scolpita nel marmo, di dimensioni leggermente superiori a quelle naturali, realizzata in uno stile neoclassico, molto simile a quello del Canova. Il giovane Endimione era semisdraiato sul fianco destro, gli occhi socchiusi, la mano destra aperta a fare da guanciale al volto perfetto, il braccio sinistro abbandonato lungo il fianco come un serpente muscoloso; e il fallo eretto, come se il giovane fosse stato ritratto in preda ad un vividissimo sogno erotico.
Mi piaceva accarezzarlo, durante le mie visite clandestine, sentire la consistenza marmorea delle sue natiche, delle gambe e delle braccia muscolose, lasciar scorrere le mie dita e, sì, anche le labbra, su quel membro di dimensioni tanto ragguardevoli. Lo desideravo ed allo stesso tempo mi sentivo una stupida: peggio di un uomo che si eccita con un fumetto, con una bambola, con un feticcio qualsiasi. Poi tornavo a guardare quel membro e percepivo ancora una volta la forza che la possente muscolatura di quel corpo comunicava al mio; e l’eccitazione si riaccendeva di nuovo. Pensavo a lui, nella penombra della mia stanza, durante quelle calde notti il cui silenzio era rotto soltanto dal canto dei grilli; e la mia mano scendeva ad accarezzare il sesso che trovava sempre già bagnato, finché il piacere non mi costringeva a soffocare un gemito.
Avevo fatto l’amore con lui almeno venti volte, nelle mie fantasie, prima di quella strana, indimenticabile notte. Ricordo che erano le due passate e ancora non riuscivo a chiudere occhio, dopo una serata trascorsa in un ottimo ristorante sul lago e proseguita con una lunga passeggiata fino alle grotte di Catullo, assieme a Nora e al marito. Continuavo a rigirarmi nel letto, in preda al nervosismo e al desiderio, finché non ce la feci più. Dovevo vederlo, toccarlo, baciarlo ancora una volta. Scesi le scale piano, a piedi nudi, trattenendo il respiro; quindi attraversai in fretta il salone di ricevimento, fino alla grande porta finestra. Era socchiusa e in un attimo fui all’aperto. Era piacevole sentire l’erba umida sotto le piante dei piedi, mentre correvo lungo il sentiero, verso la radura.
Lui era là, addormentato ed eccitato, come lo avevo sempre visto. Lo baciai sulle labbra, mentre la mia mano scendeva a sfiorargli il sesso, causa principale della mia insonnia, e cominciava un lento ma regolare movimento masturbatorio. “Svegliati”, sussurrai allora contro quelle labbra di pietra. “Amami per una notte. Una notte soltanto”. Dicendo questo mi ero arrampicata sul basso piedistallo ed ero andata a sdraiarmi accanto al giovane, in modo tale che il mio sesso era ora in corrispondenza del suo. Gettai da parte la corta camiciola da notte e sfilai le mutandine. “Ti voglio”, mormorai ancora. E feci quello che da più di due settimane era divenuto il mio solo desiderio: mi penetrai a fondo con quel membro di marmo, a cosce aperte, e cominciai a muovermi su e giù, eccitata dai miei stessi gemiti.
Non so come accadde. Sentivo quel membro divenire sempre più caldo e la sua consistenza mutare contro le pareti del mio sesso, farsi più cedevole. Inizialmente pensai – se riuscii a pensare in quello stato di delirio erotico – che fosse suggestione, che il calore del mio sesso fosse tale da scaldare anche quel marmo senza vita. Poi lo vidi muoversi. Il suo braccio si posò sul mio fianco, la mano che teneva sotto la guancia si mosse per carezzarmi, le sue labbra si avvicinarono alle mie. Godetti. Per l’eccitazione, la paura, lo sgomento, la gioia, tutto quanto insieme.
Lo guardai in volto, rapita dalla perfezione classica di quei lineamenti, incapace di distogliere lo sguardo da quegli occhi color del mare che si erano aperti soltanto per me ed ora mi guardavano con struggente dolcezza. Lo baciai, cercando la sua lingua come fosse un’appendice del suo sesso, stringendomi al suo corpo vigoroso come un naufrago ad un pezzo di legno; sentii le sue braccia circondarmi la vita, sfiorandomi i fianchi e stringermi a loro volta con infinita tenerezza, mentre, tra le mie gambe, il grosso membro eccitato cercava nuovamente di farsi strada all’interno del mio corpo. “Sì”, sussurrai tra i riccioli color dell’oro, che sapevano di essenze sconosciute ai mortali, lasciando che le sue labbra mi sfiorassero il collo e le spalle, per soffermarsi poi sul mio seno ansante e leccarne dolcemente i capezzoli. Si era levato a sedere, ora, e mi teneva saldamente per i fianchi, a cavalcioni sopra di lui, guidando il movimento ondeggiante del mio bacino con sapiente maestria. La sua verga giocava col mio clitoride, titillandolo su e giù, per poi scendere a sfiorare l’ingresso tumido della vagina e, più sotto, lo sfintere pulsante. Si divertiva a tenermi sulla corda, stuzzicandomi così, senza mai penetrarmi, mentre labbra e lingua continuavano a succhiarmi i capezzoli fino a farmeli dolere. Sentivo le sue mani aderire alle mie natiche e tirare, perché il mio sesso premesse contro il suo, allentando la presa non appena sentiva la mia vagina bagnarsi e dischiudersi. “Dammelo, amore”, gemevo; ma allo stesso tempo godevo sotto quella dolce tortura e mi strusciavo contro la sua verga fremendo di piacere.
Mi penetrò dopo quella che mi era parsa un’eternità, aprendomi piano; vedevo i suoi occhi fissi sul mio volto, per coglierne ogni espressione, di piacere o di dolore, teneramente divertito di fronte al mio evidente imbarazzo. Non ero abituata ad essere guardata mentre ero in preda al piacere: con Francesco lo avevo sempre fatto al buio o in penombra e lui mi era sempre sembrato troppo concentrato sul suo piacere per far caso al mio. Il fatto che qualcuno trovasse eccitante guardarmi godere mi metteva a disagio ed il disagio, per una strana alchimia, andava ad aumentare la mia eccitazione. “Non guardarmi così…”, mormoravo. Ma quegli occhi non mi ascoltavano e, ancora più compiaciuti dalle mie deboli suppliche, continuavano a violentare la mia intimità fino a che non godetti di nuovo. Avrei voluto che il giovane dio mi parlasse, tra un amplesso e l’altro, che mi dicesse quale sortilegio lo aveva condotto a me e se mai lo avrei rivisto. Ma soltanto i suoi occhi parlavano, mentre le sue labbra, appena increspate da un sorriso malizioso, pagano come ogni cosa in quel luogo, non emettevano suono alcuno.
Uscì dal mio sesso, il membro ancora duro e turgido come se nulla fosse accaduto, pronto a ricominciare da capo con ancora maggior vigore. Mi fece sdraiare, sollevandomi le gambe in modo tale da far appoggiare le mie caviglie sulle sue spalle; poi, mi fece scivolare le mani sotto le natiche e le sollevò, finché non ebbe le labbra ad un soffio dal mio sesso. Gemetti, mentre un rivolo d’umore mi scivolava tra le cosce e la sua lingua si affrettava a raccoglierlo. Sentivo il suo mento sfiorarmi la pelle delle natiche, mentre la lingua si faceva strada tra le grandi labbra fino a toccarmi il clitoride. Presi a dimenarmi, nella morsa di quelle mani che mi stringevano la carne fino a farmela bruciare, mugolando e ansimando come un’invasata. Impazzivo, sì, al contatto con quella lingua che lentamente mi sfiorava, scendendo e salendo lungo il mio sesso, aprendosi un varco tra le piccole labbra per penetrarmi come un piccolo, umido fallo. Le sue labbra mi succhiarono a lungo, mentre la lingua vibrava instancabile nelle profondità del mio sesso, avida di dare e ricevere piacere. Questa volta l’orgasmo arrivò violento, lunghissimo, insopportabile. Mi sollevai di scatto, aggrappandomi al suo collo, piangendo e godendo insieme, mentre la sua lingua continuava a carezzarmi le pareti della vagina, nutrendosi dei miei umori.
“Basta, ti prego”, gemetti. Ma dal suo sguardo capii che la mia supplica era servita soltanto ad eccitarlo di più.
Senza farmi scendere dal suo grembo, si alzò in piedi. Mi teneva per la vita, con le gambe aperte attorno ai suoi fianchi, le braccia avvinghiate al suo collo e mi contemplava con una sorta di estatica curiosità. Si mosse in avanti, finché non avvertii contro la mia schiena una superficie ruvida, che riconobbi subito come il tronco di un albero. Mi sentivo prigioniera, tra quel corpo statuario e la quercia secolare che nemmeno la forza di un orso avrebbe potuto abbattere e quel senso d’impotenza mi stava facendo eccitare di nuovo. Le mani robuste del mio instancabile amante si erano chiuse sui miei polsi, costringendomi a piegare le braccia all’indietro, attorno al tronco e ad inarcare la schiena; aveva ripreso a baciarmi i seni e a succhiarmi i capezzoli, con violenza questa volta, alternando il dolce massaggio delle labbra a piccoli morsi, che mi strappavano gridolini di doloroso piacere. Stava per prendermi di nuovo, lo sentivo; sentivo la sua verga durissima premere contro il mio sesso, in cerca di quella soddisfazione che sembrava non voler raggiungere mai, protraendo il piacere al limite della sofferenza.
E, allora, dal sogno scaturì un altro sogno, perché da dietro il piedistallo emerse una bellissima giovane, dai lunghi capelli bruni e dalla pelle candida, il cui corpo nudo era appena velato da un peplo azzurrino. Pensai a Selene, la Luna, follemente innamorata di Endimione e per un attimo ebbi paura. Se una donna mortale può fare pazzie scoprendosi tradita, cosa avrebbe potuto farmi la divinità che, unica, si contendeva ogni giorno con il sole il dominio del cielo? Trattenni il respiro, guardando il suo corpo bellissimo avanzare fluttuando verso di noi, fermarsi alle spalle dell’amante e appoggiare una mano sul suo braccio, in segno di possesso. è mio, dicevano i suoi occhi fissi nei miei. è mio, solo mio, piccola mortale presuntuosa!
“Scusami…”, mormorai. “Io non pensavo…”
In quel momento sentii che la stretta attorno ai miei polsi si andava allentando e dall’espressione malinconica del semidio, malinconica e colpevole ad un tempo, capii che era tutto finito. La sua legittima amante era scesa a reclamarlo ed io non potevo vantare su di lui alcuna pretesa. Mi lasciai scivolare lungo il tronco dell’albero, finché non sentii il terreno umido sotto le natiche e rimasi a guardare la coppia immortale che si incamminava verso il margine della radura.
L’ultima cosa che ricordo, di quella magica notte d’estate, è lo sguardo carico di disprezzo che Selene mi lanciò, da dietro la spalla, prima di sparire tra le fronde, assieme al suo amore. FINE