Chi si ricorda più dove ho salvato la mail di Dino.. . Il bello dei dischi da un sacco di giga è che credi di salvarci tutto e invece lasci che inghiottano file di ogni genere che ricompaiono poi dopo chissà quanto tempo, magari a ricordarti quello che stavi facendo prima di avere la geniale idea di “metterlo lì così poi lo trovo subito”.
Proprio cercando un aggregato di bit disperso nella geometria serrata di un Quantum, ho ritrovato FCCA2b. ZIP. E non c’è stato bisogno di chiedersi cosa fosse, non è stato necessario guardarci dentro per capire di cosa si trattasse, quella è stata la scusa involontaria che io Clara ci siamo dati per passare un pomeriggio eccitante e diverso, di quelli che non si voleva parlare per evitare di rompere quell’intesa che si era creata dal nulla, o che forse da tempo, in silenzio, andava plasmando pensieri e gesti che aspettavano di trovare corrispondenza.
Dopo quattro anni di corso regolare, Clara si era laureata in matematica e, dopo la prima settimana di euforia da neolaureata, era arrivato lo sconforto della neo disoccupata; giornali alla mano stava cercando un lavoro dove mettere in risalto le sue doti intellettive. Gli occhi verdi, il naso abilmente cesellato, i capelli ricci che contornavano una fronte liscia, lasciavano intuire un carattere forte cui si poteva solo obbedire, forse anche perché non si poteva fare altrimenti con lei. Ovunque si trovasse, qualunque cosa facesse, aveva in mano la storia che si stava stendendo in quel riquadro si spazio che certo non le bastava. Non solo le parole, ogni suo gesto esigeva obbedienza cieca ed immediata, i muscoli del viso fremevano sotto la pelle abbronzata e mai davano segno di riposo.
Suonò il telefono, il giorno che mi chiese di cercarle un manuale di COBOL, e non appena sentii la sua voce la solita scena mi ripassò dalla memoria agli ormoni, come ad ogni contatto con lei; quante volte avevo rivissuto quegli istanti e come quella volta la mia eccitazione era grande e dolce. La ricordavo quando, era un sabato, ero entrato in casa sua perché avremmo dovuto andare, tra amici, ad una cena. La trovai sull’ultimo gradino della scala. Indossava un vestito verde pastello, e si stava infilando un paio di scarpe come quelle che portava sempre: un tacco altissimo e molto aperte, a lasciare scoperto il piede la caviglia che sembrava scolpita, asciutta, decisa come ogni cosa di lei. L’immagine delle sue mani che scorrevano sulla seta delle calze a rincorrere quel cinturino che non voleva allacciarsi, mi si stampò dentro e cambiò il modo con cui la guardai. Con la coda dell’occhio si accorse della mia espressione, o forse fui tradito dalla mia voce quando cercai di dirle “Andiamo? “, senza che nulla di certo uscisse dalla mia gola. Lo capì, lo capì di certo e, senza fretta alcuna, con mio grande piacere finì di calzare le scarpe noncurante della gonna che era salita fino all’orlo delle autoreggenti. Anche quello era un modo per sapersi più forte di chi le stava intorno.
E fu di nuovo un suono, il campanello, che ricongiunse il mio mondo di programmatore alle prese con dischi enormi e il suo mondo di donna che mai poteva permettersi di non decidere lo svolgersi delle cose.
“Ciao”, mi disse, “hai trovato qualcosa? “. In effetti avevo quello che le serviva ma il suo vestito non mi aiutava certo a ricordarmi dove. “Scusa se sono un po’ tirata ma torno da un colloquio di lavoro, forse finisco a programmare acquisti in un supermercato”. Questa frase la ricostruii parecchio tempo dopo, al momento il mio cervello era concentrato su quell’abito: attillato, le spalle scoperte a mostrare parte della schiena levigata, quasi ad indicare che niente sosteneva quel seno fiero e sodo, che sembrava voler avere sempre l’ultima parola ad ogni più piccolo movimento.
Da ogni angolazione il suo fisico intagliato da anni di piscina urlava richiami cui era difficile che un uomo restasse insensibile. Lo spacco della gonna non nascondeva molto e solo due bottoni dorati impedivano che lo sguardo cogliesse, sopra l’orlo delle calze, la biancheria intima che doveva essere, secondo quanto diceva scherzando, “minima ma molto particolare”.
“Abbiamo parlato dieci minuti e poi è partito con tutta una storia sull’inventario di fine anno, sull’invenduto, i clienti ladri” .. . Le sue parole mi confondevano il pensiero, leggevo e rileggevo le stesse directory mentre con la coda dell’occhio cercavo di rubare uno scorcio delle sue caviglie, ormai la mia ossessione.
“Ti piacciono le mie scarpe? “. Questa frase, ripetuta, credo, un paio di volte, congelò il mio respiro e provocò un esplosione del mio battito cardiaco; niente avrebbe potuto farmi sospettare che sarei stato in grado, seppur balbettando, di dire “Si”.
“Se vuoi puoi guardarle meglio, avvicinati! “. Mi chinai, lei si sedette e accavallò le gambe ed offrì ai miei occhi incerti quello che avevo sognato migliaia di volte, provando sempre la medesima eccitazione.
“Puoi anche toccare sai, se credi di essere abbastanza premuroso”. Non so cosa governasse i miei movimenti, ma avvicinai le labbra al dorso del piede e cominciai a scorrerlo lentamente, mentre le mani lo tenevano incredule, quasi a voler prendere una nuvola. Scorrevo piano, sentivo la seta trasmettermi un eccitazione violenta e provavo piacere perché riuscivo a non scatenare la spinta che sentivo dentro; godevo di quel contatto come mai avrei creduto fosse possibile, volevo chiudere gli occhi ma vedere bene quello che facevo, e una mano cominciò a salire, adesso sicura, lungo il polpaccio. Poco dopo fu seguita dalla bocca e poi la lingua, che inumidiva le calze perché le labbra avessero un contatto più vero. Sapevo di essere suo schiavo, ed ero certo che lo sapeva e provava soddisfazione, anche se alcuni gemiti indicavano che, nemmeno lei controllava più la situazione.
Affiancò le gambe e con la mano nervosa stringeva i pugni cercando, quasi non volesse farsi notare, di tirare su la gonna. Si aspettava che lo facessi io, non capiva perché non ubbidivo al suo pensiero, non voleva aiutarmi e sapeva che stava per cedere. Io ero eccitato come forse non lo ero mai stato, il membro duro spingeva forte contro l’elastico della tuta mentre salivo lungo lo spacco fino a godere del contatto con l’orlo delle autoreggenti. Le sue mani, ormai fuori controllo, avevano slacciato i due bottoni e la gonna era rovesciata sull’altra coscia. Adesso potevo baciare la sua pelle, a ridosso del perizoma che non riusciva a contenere il profumo dei suoi umori. Lentamente feci spazio tra le sue gambe ed andai verso la sua fica leccando l’interno della coscia e baciandola dolcemente. Giocai a lungo con la lingua sopra e sotto il suo ultimo indumento, scoprendola perfettamente depilata, assaporando quelle linfe che mi davano una sicurezza che non avrei potuto trovare altrimenti. Smise di soffocare le sue volontà, e dalla sua bocca uscirono mugolii di piacere per ogni volta che carezzavo il clitoride orgogliosamente eretto. Le sfilai il perizoma e la feci girare.
La leccavo da dietro e pian piano salivo fino al centro delle natiche, per poi tornare verso l’origine del fiume profumato in cui navigavo. Con una mano salii e scoprii che sopra non indossava già più niente; i suoi fieri capezzoli indicavano quanto fosse eccitata. Abbandonai a malincuore il suo sesso per dirigermi sui seni perfetti, sodi ed agitati da un respiro ansimante e frenetico. Sembrava quasi che la mia lingua fosse un affilata lama d’acciaio, ad ogni minimo spostamento lei si contorceva e ritraeva mentre tutti i suoi muscoli impazziti affioravano sotto la pelle chiara. Mi sdraiai su lei facendole sentire tutta la mia eccitazione mentre già le sue mani stringevano le mie natiche sotto la tuta. Le nostre labbra si premevano con forza e la lingua giocava senza un attimo di tregua. Cominciai a baciarla sulla mascella, a leccarla piano su fino all’orecchio e poi il lobo, il collo e le spalle. Non ce la faceva più, mentre le mie dita frugavano tra le sua cosce a darle piacere. Non ce la faceva più e mi prese di forza rovesciandomi sul tappeto. Indossava solo le scarpe e le autoreggenti, mi guardava, lei che era in piedi, sdraiato e con lo sguardo stupito, mi voleva far capire che di nuovo aveva lei il controllo, che se si doveva godere era lei a doverlo decidere. Guardandomi fisso negli occhi si abbassò fino a sfiorarmi il volto, per poi girarsi e sfilare i miei indumenti. Non lo prese in bocca subito. Indugiò a lungo sulle gambe, poi sui coglioni, sul basso ventre e poi di nuovo a scorrere la bocca sulla mia pelle mentre io pregavo solo che la sua bocca si chiudesse sulla mia cappella che stava per scoppiare. Quando lo fece ebbi un mancamento, una caduta di pressione che avrebbe potuto uccidermi, e forse l’avrei
preferito.. . Lavorava la mia asta come mai avevo visto, la saliva calda colava e veniva risucchiata, non capivo più nulla e non ero in grado di ricambiarla nonostante avesse posizionato la sua fessura dritta sul mio volto. Poi, d’un tratto, senza girarsi e senza guardarmi, con una mano drizzò il mio cazzo d’acciaio e lentamente ci si calò sopra. Non riuscivo a tenere aperti gli occhi. La sua schiena terminava in quel culo stupendo, quelle natiche divaricate a permettere la penetrazione, e solo riuscivo a scorrere le mie mani prima che queste, d’istinto, battessero sul pavimento al ritmo della cavalcata che mi stava imponendo. La sentivo godere, gemere, soffrire, piangere. Avrei voluto cambiare posizione, credo, ma avevo paura che finisse tutto, temevo di svegliarmi e ritrovarmi solo coi miei sogni, quando vidi che con una mano da dietro andava a raccogliere gli umori per lubrificare il buco del culo, mentre io non credevo a quello che succedeva.
La vista andava e veniva a piacere, niente nella stanza pareva fermo ed il godimento era così intenso da non capire se stavo dentro o fuori, non un attimo calava la mia eccitazione. Così quando si mise a quattro zampe non capii nulla, solo che aveva in mano il mio pene fradicio a mò di guinzaglio e lo dirigeva verso il centro del culo. Recuperando allora quel poco di forza che riuscivo ad esprimere ancora, mi feci sotto con la lingua in una lappata un po’ indecisa, ma profonda quanto più potevo. Mi drizzai in ginocchio, adesso si che la potevo vedere, e lentamente appoggiai la cappella al suo buchetto, con la schiena leggermente inarcata, già che l’erezione non mi permetteva di attaccarla altrimenti. Spinsi leggermente ed in quel momento ero convinto che sulle sue labbra, che pure non vedevo, doveva esserci un sorriso di soddisfazione; se anche fosse stato, non credo durò molto. Con un colpo di reni le fui dentro fino quasi alle palle. La sua testa si tirò indietro d’improvviso ed il respiro ansimante mancò brevemente. Piano piano spinsi a far entrare anche l’ultimo pezzo e cominciai a pompare forte, quasi a volerlo togliere e poi dentro tutto di nuovo. Le piaceva ed ero io a decidere il ritmo, con una mano sulla sua schiena e con l’altra che le carezzava la caviglia. Stavo vincendo io, aveva perso di nuovo il controllo. Due volte calai il passo per essere sicuro di non venire, non volevo ancora che un orgasmo interrompesse quel momento, ma quando di nuovo abbassai la frequenza dei miei colpi fu lei a cominciare ad ondulare, prima piano poi d’improvviso più forte, mentre con una mano si masturbava vigorosamente. Quando sentii il gemito del suo orgasmo venni con tuta la mia forza, prima dentro di lei poi sulla sua schiena. Di nuovo ebbi l’impressione che stesse sorridendo, e probabilmente lo faceva davvero.
Anche stavolta aveva vinto lei. FINE
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